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M. Carolina Brandi
PORTATI DAL VENTO
Il nuovo mercato del lavoro scientifico: ricercatori più flessibili o più precari?

 

pp. 200 € 15,00

 

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Questo libro analizza la fase iniziale della carriera scientifica, quel periodo nel quale il giovane ricercatore affronta un processo, necessariamente non breve ma spesso troppo lungo, di formazione e selezione. Vengono perciò presentati i risultati ottenuti tramite lo studio della bibliografia internazionale sull’argomento, un’indagine statistica condotta tra i ricercatori sul rapporto di lavoro a termine negli Enti Pubblici di Ricerca e nelle Università italiane ed il confronto tra i risultati previsti dai modelli teorici di organizzazione del lavoro nella scienza e quelli ottenuti dall’applicazione di questi modelli. Il libro vuole quindi essere uno strumento di analisi, che aiuti a capire perché sia così difficile la situazione del giovane ricercatore in Italia e quanto abbia effettivamente funzionato, anche all’estero, la strategia di rendere il lavoro scientifico sempre meno stabile. Esso è perciò dedicato a chi si occupa di politica della ricerca e a quanti, vivendo in prima persona la precarietà, si stanno oggi organizzando per cambiare le cose.
M. Carolina Brandi è ricercatore presso l’Istituto di Ricerca sulla Popolazione e le Politiche Sociali (IRPPS) del CNR. I suoi studi riguardano il mercato del lavoro scientifico ed i movimenti migratori dei lavoratori altamente qualificati. Ha pubblicato su questi temi numerosi saggi, tra i quali il più recente affronta vari aspetti del problema della "fuga dei cervelli": la storia del brain drain, l’emigrazione italiana ad alta qualifica, i ricercatori stranieri in Italia, le politiche relative alle migrazioni high skilled (Le migrazioni qualificate tra mobilità e brain drain, a cura di S. Avveduto, M. C. Brandi e E. Todisco, Studi Emigrazione n. 156, CSER, 2004)

Qui di seguito le recensioni:

 

da LE SCIENZE n. 460, dicembre 2006, pp. 12-13
Portati dal vento: scienza e precariato
di Claudia Di Giorgio


LA TRASFORMAZIONE DEL LAVORO SCIENTIFICO DA STABILE A FLESSIBILE STA FALLENDO IN TUTTO IL MONDO: PERCHÉ SI BASA SULLA CONVINZIONE CHE IL SAPERE SIA UNA MERCE COME LE ALTRE


Un problema spesso sollevato quando ci si ferma a riflettere sulle questioni della ricerca, in Italia come negli altri paesi occidentali, è il cosiddetto calo delle vocazioni scientifiche: sempre meno ragazzi si iscrivono alle Facoltà che avviano a una carriera da ricercatore, e sempre meno laureati di quelle Facoltà decidono poi di seguirla davvero. Il problema è serio, e prefigura un domani in cui molte nazioni oggi ai vertici dell'economia mondiale faranno fatica a reggere la concorrenza dei paesi emergenti. Meno noto è che una delle cause principali del problema, segnalata da vari rapporti internazionali, è l'insicurezza del posto di lavoro nel settore della ricerca. Non stiamo parlando dell'Italia (o meglio, non solo). Studi, e allarmi, sull'influenza negativa dell'instabilità del lavoro nella ricerca vengono, tra l'altro, dagli Stati Uniti, dal Regno Unito, dalla Francia e da molti altri paesi. Li riassume nel suo ultimo lavoro (Portati dal vento, Odradek Edizioni, 2006) Maria Carolina Brandi, dell'Istituto di ricerca sulla Popolazione e le Politiche Sociali del CNR, da tempo impegnata assieme ad altri, nello studio delle risorse umane impegnate nella società della conoscenza.
«La tendenza a sostituire il personale di ruolo con personale a contratto a termine - spiega Brandi - è stata esplicitamente incentivata dalle politiche dei paesi maggiormente industrializzati dell'ultimo ventennio». Dietro queste politiche vi sono molte ragioni, riassumibili nella certezza di fondo che la competizione, nel «mercato. della scienza come in quello di ogni altra merce, sia la strada giusta per ottenere i risultati migliori. Riscosso dal letargo del posto fisso, il ricercatore flessibile sarebbe anzitutto più produttivo, poi più incline a trasferire le proprie conoscenze (e se stesso) dall'accademia alle imprese e tra un settore di ricerca e l'altro, e infine più libero da pressioni e condizionamenti. Non è così. A dispetto della difficoltà di effettuare indagini su un universo variegato e imprevedibile come quello dei contratti a termine, chi, come Brandi, ha affrontato la questione con strumenti scientificamente attendibili, descrive un quadro fallimentare: nel nostro paese come in altri, anche se le anomalie del sistema imprenditoriale italiano rendono la nostra situazione ancora più grave. Vediamo alcuni aspetti di questo fallimento. Al rapporto tra calo delle vocazioni e precarietà si è già accennato, ma vale la pena di segnalare che «Science» ospita da cinque anni un forum di testimonianze sul peggioramento delle condizioni di lavoro e della qualità dell'insegnamento e della ricerca nelle università americane e di altri paesi causato dalla precarietà dell'impiego. E mentre negli Stati Uniti si stanno diffondendo sindacati di graduate student che hanno avuto confronti anche molto duri con le autorità accademiche, in Francia la mobilitazione del movimento «Sauvons la recherche» nel 2004 ha portato alle dimissioni del ministro della ricerca Haigneré. Ai «flessibili», insomma, la flessibilità non piace. E, come confermano le indagini di Brandi sui precari italiani delle università e degli enti di ricerca, è vissuta come una necessità e non come libera scelta, e il contratto a termine è ritenuto accettabile solo come fase di formazione e selezione: la gavetta a vita è un ossimoro intollerabile.
Che non aumenta affatto la produttività. l ricercatori precari hanno un output scientifico elevato, riferisce ancora Brandi, ma non superiore a quello dei ricercatori con un contratto a tempo indeterminato, «confermando così che la produttività di uno studioso dipende principalmente dalle sue capacità e dalla validità del gruppo in cui è inserito»: un dato rilevato anche nel caso statunitense.
In Italia, poi, appare particolannente falsa l'idea che la flessibilità stimoli il trasferimento di conoscenze. Le imprese italiane non sono interessate all'innovazione tecnologica (negli ultimi vent'anni la quota di produzione di merci ad alta tecnologia non ha mai superato l’1 per cento) e la maggioranza dei ricercatori precari della ricerca passati alle imprese usa una piccolissima parte delle conoscenze acquisite in precedenza. Smentita, infine, l'ipotesi che il ricercatore flessibile svolga la propria attività più liberamente. Anzi. I 798 intervistati nel 2004 da Brandi, Caruso e Cerbara indicano a stragrande maggioranza che il fattore determinante agli effetti del rinnovo del contratto è il sostegno del responsabile del gruppo di ricerca, mentre i titoli scientifici contano molto meno, e che assai raramente un precario presenta richieste autonome di finanziamento o dirige un progetto di ricerca. Non parliamo poi della possibilità di entrare in quei gruppi e quelle commissioni in cui si decidono le linee di sviluppo della ricerca. Tutto questo non è una novità. I problemi rilevati nel 2004 coincidono con quelli emersi in uno studio di cinque anni prima sui precari del CNR; rispetto ad allora, la situazione è peggiorata, grazie al blocco delle assunzioni e alla costante riduzione dei fondi. Ma, secondo Brandi, l'Italia vive una versione aggravata (per sue specifiche debolezze) di un problema generale. Se il lavoro accademico non si è trasformato da «stabile» a «flessibile» in nessun paese, la ragione è una «impostazione concettualmente errata nelle sue stesse ipotesi di base. [...] L'insostenibilità dei modello di produzione scientifica basata sul precariato deriva proprio dall'aver ideologicamente confuso la sana competizione scientifica con la concorrenza sui mercati economici».

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da Il manifesto, 14 dicembre

La precarietà distrugge la ricerca scientifica
Indagine del Cnr sui ricercatori “Portati dal vento».
Smantellati tutti i luoghi comuni neoliberisti

Tommaso De Berlanga

Nulla come la scienza permette di diradare le nebbie. Accade perciò che le teorie di moda su «fIessibiIità e precarietà» - che sarebbero necessarie per aumentare produttività e concorrenza - non hanno subito ancora nessuna verifica attendibile: sfornando cioè quantità, meccanismi, conseguenze. E soprattutto «misurando» il tutto con strumenti trasparenti, messi a disposizione di tutti. Non era accaduto - ed è paradossale - neppure nel campo della ricerca scientifica, a sua volta sconvolta da 14 anni di blocco delle assunzioni (per concorso) e sostenuta solo grazie a iniezioni massicce di precari pluriIaureati.
Quando la scienza decide di indagare il fenomeno, i risultati si vedono. Nella sala Marconi del Cnr, ieri mattina. oltre 150 ricercatorl e scienziati si sono misurati con lo studio condotto da M. Carolina Brandi [Portati dal vento. Il mercato del lavoro scientifico: ricercatori più flessibili o più precari? Prefazione di Enrico Pugliese], che ha inaugurato la collana scientifica delle edizioni Odradek. Ne esce distrutto il Ieit motiv degIi editorialisti-liberisti, secondo cui «il lavoratore (ricercatore) precario è altamente produttivo perché mantenuto costantemente sulla corda dalla precarietà contrattuale». Cominciò a proporlo, per gli enti di ricerca, Confindustria nel '95, in modo da «legare più strettamente ricerca e imprese»; nonostante le imprese italiane siano sempre meno interessate a fare e a utilizzare la ricerca scientifica (solo il 3%, ormai).
Una «panzana», la definisce Enrico PugIiese. Il frutto di una «ubriacatura ideoIogica», nelle parole di Marco Broccati, della FIc-CgiI, che «però non è stata ancora smaltita», e che disegna un quadro negativo di lungo periodo. Persino studiosi Usa hanno ormai accertato che la «produttività» scientifica aumenta con la stabilità del contratto. Il perché è intuitivo, ma i dati statistici lo confermano in pieno: il precario, all'avvicinarsi della scadenza del suo impegno, dedica sempre più tempo e attenzione alla ricerca di un nuovo contratto. Anche la «mobilità» intersettoriale o territoriale - altro argomento ritenuto «forte» a favore della precarietà - risuIta più alta tra i rirercatorl «garantiti». Quanto all'autonomia, ben l'81% del campione dichiara di non aver neppure mai chiesto un finanziamento su un proprio progetto.
Il mito della «concorrenza» è duro a morire, ma nel lavoro scientifico, però, la precarietà genera solo «rivalità» e gelosie tra partecipanti allo stesso gruppo, mentre la «sana competizione» per ottenere risuItati migliori si palesa solo tra chi ha un contratto stabile. Le donne, infine, escono massacrate: hanno mediamente contratti a termine di durata inferiore e più lunghi periodi di precarietà prima di raggiungere l'agognata assunzione. Il precario, infine, risulta anche meno «fIessibiIe», più «ancorato» allo stesso settore. La situazione internazionale dei paesi avanzati è praticamente identica quanto a dinamiche, l’Italia, però, «eccelle» in negatività: siamo l'unico paese Ocse in cui i ricercatori diminuiscono di numero e la spesa in ricerca delle imprese cala continuamente. Il risultato più importante della ricerca della Brandi è però un altro: la precarietà e la flessibilità non sono soltanto un'intollerabile gogna per le persone che vi sono costrette (e stiamo parIando di aspiranti scienziati che ammettono di aver fatto «una scelta di vita», rinunciando magari a posti di lavoro certamente più remunerativi), ma sono anche un cancro che mina le possibilità di sviluppo di un paese e deIla sua popoIazione, preparando il degrado della conoscenza e quindi l'arretramento complessivo (economico, scientifico, culturaIe, sociale).
Non c'è da sorprendersi, infatti, se dal combinato disposto di riduzione della spesa, precarietà contrattuaIe, autonomia erosa da una «stratificazione di divieti» di origine e motivazione ragionieristica, svalutazione industriale deII'impegno scientifico, venga fuori una percezione sociale diffusa che vede nella carriera scientifica un «salto nel buio». Da dove pensate che nascano fenomeni come la «crisi delle vocazioni» e la «fuga dei cervelli»?
Le risposte che si pretendono dalla politica - in questo consesso di scienziati che non nasconde di aver inutilmente sperato nella vittoria del centrosinistra – non mirano a un «ritorno al passato», né alla «sanatoria ope legis» che non distingue tra ricercatori meritevoli e imboscati per via clientelare. Ma almeno a un’“inversione di tendenza” rispetto alla corsa ai tagli finanziari, e alla riapertura dei concorsi con criteri meno raccapriccianti di quelli attuali (solo il 25% del punteggio viene dai titoli e dalle pubblicazioni scientifiche), questo sì.

C’ero anch’io alla presentazione di Portati dal vento, e posso dire che il resoconto che ne dà Tommaso De Berlanga - omonimo e forse discendente di quel Tomás de Berlanga casuale scopritore delle Galàpagos - è ottimo, sia per ciò di cui riferisce, sia, soprattutto, per ciò che ha finito per tralasciare, e cioè gli interventi dei rappresentanti (?) dei precari, di obbedienza negriana, per lo più. Ha fatto bene, perché in quel consesso il vero soggetto era la “comunità scientifica” che s’interrogava sul vulnus portato dalla precarizzazione, sul quale le testimonianze particolari e soggettive nulla avevano da aggiungere. Il giochetto di mettere l’uno contro l’altro il garantito e il non garantito – che riuscì, purtroppo, negli anni Settanta, nel più generale contesto del lavoro salariato – non riesce nel particolare contesto del lavoro scientifico. L'attacco viene portato all'intera comunità scientifica e questa reagisce, mi pare, unitariamente.

cdb

da repubblica.it

Raccolti in un libro i risultati di un'indagine su questo segmento del mercato del lavoro
Tra insoddisfazioni e paura del futuro. E intanto si alza l'età media dei ricercatori
La maledizione del precario scientifico
"Una vita piena di stress e tensioni"

Il mercato del lavoro nel settore scientifico sempre più all'insegna della precarietà: il 10,2% dei ricercatori ha avuto infatti un contratto a tempo determinato e il 9,7% un assegno di ricerca; i "Co.co.co." e le altre forme di collaborazione sono il 35,8%, mentre i borsisti di vario genere sono 37,4%. Un'incertezza che provoca stress e tensioni anche nella vita privata.
Ai ricercatori precari è dedicata l'indagine svolta dell'Istituto di ricerche sulla popolazione e le politiche sociali (Irpps) del Consiglio nazionale delle ricerche, pubblicata nel volume Portati dal vento. Il nuovo mercato del lavoro scientifico di Maria Carolina Brandi dell'Irpps-Cnr.
Un altro dato che desta preoccupazione è poi l'elevata età media dei ricercatori, dovuta anche al blocco delle assunzioni a tempo indeterminato negli enti pubblici di ricerca. All'indagine hanno risposto, attraverso un questionario informatico, 798 ricercatori con contratto a termine di alcune Università e dei maggiori Enti pubblici di ricerca italiani. "Dall'esame dell'età si rileva innanzitutto che il 5,2% ha più di quarant'anni, il 20,6% è tra i 35 e i 39 anni, mentre il 43,4% è tra i 30 ed i 34 e solo il 30,7% ha 29 anni o meno", spiega Carolina Brandi. Un effetto, questo, dei tempi di attesa: "Anche 5 anni prima che un ricercatore possa vedere stabilizzata la propria collaborazione. Al momento dell'intervista, infatti, il 60% dei casi aveva rapporti di lavoro in atto di durata intermedia, il 32,3% usufruiva di contratti brevi (di un anno o meno), mentre pochissimi (7,7%) avevano contratti di durata superiore ai tre anni".
Ma come incide nella vita privata il perdurare di questa instabilità? "Per il 97,4% è causa di stress emotivo, che il 59,3% dichiara 'forte'". La produttività scientifica, invece, sembra non risentire dell'incertezza: "L'output scientifico del campione è elevato e nella media - aggiunge l'autrice - a conferma che esso dipende dalle capacità e dalla validità del gruppo e non dalla stabilità del rapporto di lavoro". Inoltre, nonostante le difficoltà, emerge che la ricerca è una scelta di vita per gli intervistati, una vocazione che di fatto scoraggia il passaggio ad altre professioni nelle quali, pure, l'85,9% ritiene di avere possibilità di inserimento e il 68,5% anche con un salario più alto.

postato il 12 dicembre 2006

 

da Galileonet

Scienza e precariato
di Andrea Capocci

sta su http://www.galileonet.it/recensioni/7942/scienza-e-precariato
M. Carolina Brandi
Portati dal vento. Il nuovo mercato del lavoro scientifico: ricercatori più flessibili o più precari?
Odradek 2006, pp.200, euro 15,00

Può sorprendere che uno studio denso di tabelle e analisi statistiche sia pubblicato da un'editrice militante (che non vuol dire approssimativa) come Odradek. Tuttavia, malgrado lo stile accademico, l'immagine del mondo della ricerca italiana che emerge dall'analisi di M. Carolina Brandi non perde in impatto, anzi: si rafforza proprio per l'ampiezza della documentazione e la complessità del tema, trattato senza semplicismi. La questione è di strettissima attualità: le conseguenze della diffusione endemica di forme di lavoro atipico nelle università e negli enti di ricerca. Brandi e la sua équipe dell'Istituto di Ricerca sulla Popolazione e le Politiche Sociali del CNR chiariscono un dubbio: la precarizzazione del lavoro di ricerca si è tradotta in un formidabile boomerang per la stessa comunità scientifica. In questi anni, e non solo negli atenei, la flessibilità del rapporto di lavoro è stata giustificata dalla necessità di svecchiare, fluidificare e rendere più efficiente l'organizzazione produttiva. Ebbene: per quanto riguarda la produzione e la trasmissione di conoscenze, il “core business” di ricerca e università, la precarietà non ha portato nulla di tutto ciò. Al contrario, ha finito per aggravarne i difetti storici. La ricerca di Brandi, dunque, smonta diversi luoghi comuni.
Per esempio, l'analisi comparata rivela che la richiesta di maggiori tutele per i ricercatori non è il piagnisteo italiota di una generazione che rimpiange il posto fisso. In questi ultimi anni, il malcontento contro la ricerca co.co.co. è emerso persino nei paesi scandinavi che investono in ricerca molto più che le briciole nostrane. Anche a New York, nel 2006, si arrivò agli scontri di piazza per i diritti dei giovani ricercatori. Trattasi, com'è evidente, di sistemi diversissimi per storia e tenore di vita. Perciò, la radice del comune disagio non risiede nel livello di finanziamenti e stipendi, così diversi tra loro: piuttosto, sta nell'organizzazione "a progetto" che, dagli Usa alla Svezia, priva la ricerca pubblica delle prospettive di lungo periodo su cui può dimostrare la sua utilità e la sua necessità.
Né la gerarchia accademica, spesso un vero feudalesimo, è scalfita dalla riorganizzazione dell'attività intorno a figure ibride (assegnisti, borsisti, parasubordinati, docenti a contratto). Il 78 per cento dei ricercatori intervistati da Brandi afferma che il sostegno del capo è un fattore determinante per la prosecuzione della carriera, con buona pace dell'indipendenza del lavoro di ricerca. E in un'inchiesta svolta soprattutto da donne, non può mancare una prospettiva di genere. È donna il 53 per cento dei ricercatori a termine intervistati con contratti di durata inferiore a un anno, mentre gli uomini si accaparrano il 59 per cento dei contratti che durano 3 anni e più. Alla brevità dei contratti, inoltre, corrisponde una maggiore subordinazione: l'appoggio di un “padrino” accademico conta più del merito per il 65 per cento delle donne, percentuale che scende al 50 per cento (comunque elevata) tra gli uomini. La distanza tra il “marketing della precarietà” e la realtà è quanto mai vistosa: basti ricordare che la flessibilità fu introdotta per favorire le esigenze del lavoro femminile (così si disse all'epoca), mentre oggi una donna è una ricercatrice di serie B. È un fenomeno trasversale all'intera società, che non risparmia nemmeno i settori di attività più qualificati. I dati raccolti e analizzati dal gruppo di ricerca di M. Carolina Brandi, dunque, mostrano come la precarietà dei ricercatori sia il sintomo di una crisi sistemica più profonda, che lascia poche incertezze sull'interrogativo del titolo (“Più flessibili o più precari?”). Ora, almeno, si possono chiamare le cose con il loro nome.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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