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Ernesto Screpanti
UN MONDO PEGGIORE
E' POSSIBILE
Sei perle dalla triste scienza

Prefazione di Francesco Muzzioli

 

pp.124 € 12,00

 

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Libro umoristico, se si vuole, in cui un economista di tutto rispetto come Screpanti comincia a tirar fuori paradossi dalla propria disciplina e s’inventa l’ironiconomia offrendo al lettore la propria critica, portando all’assurdo teoremi e assiomi. E così scopre la produttività del paradossso, ma anche il paradosso della produzione capitalistica. L’ironia di Screpanti sembra una parodia swiftiana, ma gli scenari e gli strumenti usati sono attuali e scientifici; così la schiavitù volontaria diventa l’unico rimedio alla disoccupazione, l’estinzione dello Stato viene affidata a un monarca anarchico, le elezioni affidate ad un unico elettore: quello mediano, mentre la vera democrazia è rappresentata dalla dittatura.
Ernesto Screpanti insegna Economia politica all’Università di Siena. Tra le sue pubblicazioni più recenti: The Fundamental Institutions of Capitalism, Londra Routledge, 2001; Profilo di storia del pensiero economico (2 voll., con E. Zamagni), Roma Carocci, 2004; Il capitalismo. Forme e trasformazioni, Milano Punto Rosso, 2006.

Indice

Prefazione Ironia ed economia di Francesco Muzzioli

Prima perla. La soluzione definitiva al problema della disoccupazione

Seconda perla. La teoria neo-libertaria della giustizia e della schiavitù

Terza perla. Dall’elettore mediano all’elettore modale

Quarta perla. Una modesta proposta per risolvere alcuni problemi della democrazia

Quinta perla. La teoria del valore-libido e alcune sue implicazioni di politica sociale

Sesta perla. Sull’impossibilità della democrazia giusta

Conclusione Da Sade a Marx

Appendice Breve la storia felice dell’utopia liberale

*******

Ironia ed economia Prefazione di Francesco Muzzioli


Non è semplicemente perché sono caduti tutti gli steccati e tutti i muri, nella confusione postmoderna, non ci sono più distinzioni di settore e nemmeno uno straccio di competenza specifica, ed è possibile transitare liberamente senza passaporto di sorta attraverso i confini che un tempo separavano la letteratura dalla logica filosofica o dalla teoria politica ed economica, qualsivoglia argomentare essendo ridotto in amabile intrattenimento del tipo “conversazione” (Rorty docet), essendo tutti quanti – letterati e filosofi, letterati-filosofi, non altro che “scrittori”, da valutare non secondo metodi e tradizioni proprie, ma vagliati già da sé davanti all’unico giudice insindacabile che è il Mercato (quanti libri venduti, quanti studenti-clienti accalappiati, ecc.). Dunque, dicevo: non è semplicemente per questo, per questo mescolamento da ortaggi nel medesimo minestrone epocale; non è per questo che io, “criticante” di poesie e scartabellatore di avanguardie letterarie, sparuto epigono di allegoria e straniamento, mi trovo qui a introdurre un libro “scientifico” (di economia o di logica che sia: comunque non-letterario): è, invece, tengo a dichiararlo, per una intrinseca e sostanziale convergenza.
L’«ironiconomia» che qui Ernesto Screpanti imposta e persegue con piglio ed acume (il lettore si prepari: ne vedrà delle belle...) l’ho scoperta davvero consentanea con quelle linee di tendenza della patafisica e del dadaismo che mi hanno interessato da sempre, costituendo le punte più acuminate dell’anti-arte novecentesca, quelle in cui la Poesia con la “P” maiuscola faceva felicemente naufragio, e con essa tutta la religione romantica delle Lettere, in un mare di risate...

 

Un mondo peggiore? Basta andare avanti così.

di Tommaso de Berlanga, il manifesto, 8 dicembre 2006


Come si fa a dimostrare l'assurdità delle ricette economiche somministrateci tutti i giorni dagli spacciatori del "pensiero unico"? Semplice: si traggono le estreme conseguenze da ognuna di esse. E perciò la tesi che vuole che il lavoro sia una semplice variabile dipendente del processo produttivo, al pari di qualsiasi altra merce o materia prima che vi entra, viene "tirata" al limite e diventa la proposta di legalizzare il "contratto di libera schiavitù". In cui "i lavoratori assumono un obbligo all'obbedienza perpetua nei confronti della controparte e rinunciano a negoziare il salario e le condizioni di lavoro, ricevendo in cambio un reddito di sussistenza vita natural durante". Il risultato "previsto" sarebbe la scomparsa della disoccupazione, ovvero dei “fannulloni” tanto invisi a Ichino e Giavazzi, e di tutti quei ceti sociali che vivono sotto la soglia di povertà; quasi un "reddito garantito", ma a condizioni assai più "realistiche" che non nelle proposte correnti.
Oppure la teoria del “valore-libido”, in cui si concentra in modo paradossale il succo di molta pseudo economia liberal-liberista attuale: è vero, lavorare è spesso penoso e non piacevole, ma siccome i contratti sono “liberamente” sottoscritti dai lavoratori, il “minus-orgasmo” cui pervengono è una loro “libera scelta”. E ancora: vogliamo risolvere un paradosso della “democrazia dell’alternanza” propria del sistema maggioritario, quella dove i due schieramenti concorrono “correndo al centro”? Facciamo votare solo l’“elettore mediano”, anzi l’“elettore modale”, e ci assicureremo quella “stabilità” continuamente compromessa dalla volgare compravendita di singoli parlamentari in questa o quella votazione.
E’ il mondo solo apparentemente rovesciato che Ernesto Screpanti, docente di economia politica all’università di Siena, descrive nel suo “Un mondo peggiore è possibile. Sei perle dalla triste scienza”, appena edito da Odradek edizioni. Una scorribanda agile e divertente, condotta però con puntiglio swiftiano, nella stile rigoroso della “modesta proposta”. Una boccata di ossigeno per ogni cervello che voglia ancora provare a pensare da sé. E’ l’“ironiconomia”, la disciplina in cui le sciocchezze liberiste vengono prese così sul serio da risultare irresistibilmente comiche. Il problema è che da quelle sciocchezze veniamo governati davvero. E quindi il mondo può solo peggiorare.

* * *

Ernesto Screpanti anticipa Marchionne. Screpanti scherzava, Marchionne fa sul serio. Ma noi, appena sette mesi fa avevamo anticipato l'evento. Vedi sotto lo scambio epistolare con Screpanti.

Il contratto di libera schiavitù. Quando la fantasia arriva prima di Marchionne.

I capitolo - LA SOLUZIONE DEFINITIVA AL PROBLEMA DELLA DISOCCUPAZIONE
In questo capitolo illustrerò una grande scoperta scientifica fatta recentemente all'Università di Chicago, una scoperta che potrebbe contribuire a risolvere definitivamente il problema della disoccupazione nei paesi industrializzati.
Il contratto di schiavitù è un patto col quale i lavoratori assumono un obbligo all' obbedienza perpetua nei confronti della controparte e rinunciano a negoziare il salario e le condizioni di lavoro, ricevendo in cambio un reddito di sussistenza vita natural durante. La controparte acquista un diritto di proprietà sul lavoratore. Cosa succederebbe se tale contratto fosse permesso? Una percentuale non irrilevante di poveracci (tra i disoccupati, i sottoccupati, i precari, gli immigrati), lo accetterebbe subito volontariamente. Infatti la schiavitù offrirebbe a questi lavoratori molti vantaggi: innanzitutto, un miglioramento delle condizioni di vita per chi vive altrimenti sotto la soglia della povertà; in secondo luogo un'assicurazione dalle avversità e dalle fluttuazioni economiche, il reddito dello schiavo rimanendo pressoché costante nel tempo; in terzo luogo un'assicurazione completa dalla disoccupazione, visto che all'impegno del lavoratore ad obbedire per sempre deve corrispondere un impegno del padrone a comandare per sempre. Ma la schiavitù può funzionare soltanto se anche i datori di lavoro traggono un qualche vantaggio da questo tipo di contratto. In cosa può consistere un tale vantaggio? Consiste nel fatto che il lavoratore, in quanto schiavo, diviene parte del capitale padronale e può essere iscritto a bilancio. Come attività patrimoniale esso ha un valore indipendente dal modo in cui viene usato individualmente: il valore che viene determinato sul mercato degli schiavi di seconda mano. Questo, si noti, sarebbe un mercato perfettamente concorrenziale, dal momento che non esisterebbero sindacati. Ciò comporta che il padrone può tenere lo schiavo fin che gli serve e rivenderlo a un prezzo remunerativo quando non gli serve più. Inoltre l'obbligo all' obbedienza perpetua garantisce una perfetta flessibilità del lavoro e perciò un uso ottimale di questa risorsa. Peraltro, siccome il capitale umano incorporato nel lavoratore diventa di proprietà del padrone, questi avrebbe ogni convenienza a valorizzarne le capacità lavorative. Farebbe i necessari investimenti nell' istruzione e nell' addestramento dei lavoratori più dotati, migliorando anche per questo verso l'efficienza nell'uso delle risorse. Poiché tale tipo di contratto piacerebbe probabilmente ai padroni più del contratto di lavoro, la domanda di schiavi aumenterebbe rapidamente, mentre diminuirebbe la domanda di lavoratori salariati. CosÌ, i posti di lavoro per questi ultimi si ridurrebbero e le loro condizioni economiche peggiorerebbero in assoluto e relativamente a quelle degli schiavi. Di conseguenza sempre più lavoratori sarebbero disposti ad accettare volontariamente il contratto di schiavitù e l'offerta si adeguerebbe rapidamente alla domanda. Al limite, dopo un certo periodo di tempo, presumibilmente non molto lungo, tutti i lavoratori sarebbero ridotti in schiavitù. Quindi un sistema economico basato sulla libera schiavitù sarebbe robusto e stabile.
La nuova istituzione garantirebbe anche la piena occupazione. Infatti l'esistenza di un mercato e di un valore di equilibrio di seconda mano rende superfluo il licenziamento. D'altra parte, dato il basso costo di questo tipo di risorsa, nessun proprietario avrebbe alcun disincentivo a comprare schiavi al prezzo di mercato. E poiché l'obbligo all' obbedienza totale rende il lavoro perfettamente flessibile, ogni imprenditore avrebbe un incentivo ad assumerne quanti più può. L'unico limite alla piena occupazione sarebbe costituito dalla disponibilità di capitale. Ma, poiché il salario dello schiavo è per legge naturale un reddito di sussistenza, l'intensità capitalistica delle tecniche sarebbe minima, la profittabilità nell'uso degli schiavi sarebbe massima, molto elevato sarebbe il tasso di crescita e rapidissimo il processo di raggiungimento della piena occupazione. Sembra che a un recente incontro del G8 si sia segretamente discusso dell' opportunità di introdurre questa innovazione in tutti i paesi più industrializzati. Il FMI sta studiando il modo per convincere il più gran numero di nazioni a sottoscrivere lettere d'intenti in cui si impegnano a varare l'innovazione nei tempi più rapidi possibili. L'Accademia di Svezia ha già messo all' ordine del giorno la proposta di assegnare il premio Nobel per l'ideologia all' economista di Chicago che ha elaborato la nuova teoria della libera schiavitù. Il grande merito di Milton Friedwhip (1997), l'economista in questione, non consiste solo nell' aver fatto questa scoperta, ma anche nell' aver dimostrato che la ibera schiavitù non è in contrasto con la migliore tradizione del pensiero liberale, anzi che ne è l'estremo logico approdo. Infatti uno Stato che non vuole intromettersi nell' economia, e che si limita ad accertare e garantire la legittimità dei titoli generati dalle transazioni private, non può proibire a nessuno di firmare liberamente un contratto di schiavitù. Inoltre il professor Gary Checker (1998) ha dimostrato che l'innovazione garantirebbe un miglioramento di efficienza paretiana e dovrebbe quindi essere accettata unanimemente. Infatti la riduzione di un disoccupato in schiavitù non ridurrebbe il benessere dei padroni (altrimenti non comprerebbero schiavi), ma aumenterebbe senz'altro quello dei lavoratori, i quali se non fossero schiavizzati dovrebbero vivere al disotto della soglia di sussistenza.
C'è di più. Il professar Domenico Sordo (1999) dell'Università di Milano, ha svolto una ricerca storica in cui, a scorno delle anime belle della sinistra, dimostra che l'innovazione in questione non è in contrasto neanche con la migliore tradizione del Komintern, Essendo stata anticipata con i metodi di organizzazione del lavoro adottati in Unione Sovietica nei primi piani quinquennali - quei metodi che hanno consentito al sistema socialista di raggiungere rapidamente la piena occupazione già negli anni Trenta, quando i paesi capitalisti erano in profonda depressione. Forte di questa lezione storica, il professor Sordo si è messo quindi alla ricerca di una giustificazione scientifica. E ha trovato che i meriti della schiavitù, prima di essere riscoperti dalla moderna scuola di Chicago, furono studiati con rigore da Friedrich Engels e Karl Marx. Ecco cosa dice Engels (1970, p. 289):
«Lo schiavo è venduto una volta per sempre; il proletario deve vendere se stesso giorno per giorno, ora per ora. Il singolo schiavo, proprietà di un solo padrone, ha l'esistenza - per miserabile che possa essere - assicurata già dall'interesse di questo stesso padrone; il singolo proletario, proprietà per così dire dell'intera classe dei borghesi, al quale il lavoro viene acquistato solo se qualcuno ne ha bisogno, non ha l'esistenza assicurata [...] Lo schiavo può quindi avere un' esistenza migliore del proletario.»
Engels ha dunque capito quali sono i vantaggi che la schiavitù può arrecare ai lavoratori. Marx (1971, pp. 284-285), da parte sua, ha messo in evidenza quelli che essa offre allo sviluppo economico:
«Non occorre che vi parli dei lati buoni e cattivi della libertà o dei lati cattivi della schiavitù. L'unica cosa che si deve spiegare è il lato bello della schiavitù [...] La schiavitù diretta è il premio dell'industrializzazione odierna non meno della macchina, del credito ecc. Senza schiavitù non c'è cotone; senza cotone non c'è industria moderna. La schiavitù ha dato alle colonie il loro valore; le colonie hanno creato il commercio mondiale; il commercio mondiale è la condizione necessaria per !'industria meccanizzata su larga scala [...] La schiavitù è perciò una categoria economica della massima importanza. Senza schiavitù l'America del Nord, il paese più progredito, si trasformerebbe in un paese patriarcale. Cancellate l'America del Nord dalla carta delle nazioni e avrete l'anarchia, la decadenza totale del commercio e della civiltà moderna.»
Dunque la schiavitù, oltre a massimizzare il benessere dei lavoratori, è un fattore di progresso industriale e di civiltà. Così, suggerisce il professor Sordo, si dimostra che la terza via non mira tanto a superare la prima e la seconda quanto a rivelarne l'intima profonda unità. I politici democratici ma di sinistra vadano tranquilli; le leggi sulla flessibilità del lavoro possono essere varate senza problemi morali dai partiti laburisti oltre che da quelli liberali, essendo anticipazioni di riforme avanzate.

Ernesto Screpanti, che insegna Economia politica all'Università di Siena, ha pubblicato con noi Un mondo peggiore è possibile. Sei perle dalla triste scienza. Sei paradossi, apparenti. Ci penserà Marchionne a rendere più "realistico" il contratto: licenziando gli schiavi

*
Ernesto Screpanti, che ci legge, ci fa notare che:
«Questa vostra applicazione empirica delle mie teorie dimostra che il mio lavoro si sta rivelando scientificamente utile. Ora mi rendo conto che non era un modello distopico, ma uno studio adeguato dei processi storici in atto.
Sarebbe interessante se qualcuno si divertisse a spiegare il mondo attuale sulla base di quel modello. Un mondo peggiore non è solo possibile: è in fase avanzata di realizzazione.
Provare a spiegare Berlusconi col modello del dittatore benevolente (sesta perla). Attraverso elezioni democratiche i cittadini "assegnano al presidente il compito di massimizzare una funzione del benessere sociale basata sul principio: massima libidine per il più gran numero di persone" (p. 87). Il presidente trasforma lo stato in un'azienda su cui ha il potere assoluto di un manager. Governa col consenso degli azionisti-cittadini, e potrà continuare a governare fintanto che distribuirà qualche utile.
Marchionne sta facendo qualcosa di speculare dentro l'azienda: un manager-presidente che ha potere assoluto sui sudditi col loro consenso.
Mai l'isomorfismo azienda-stato è stato più vicino alla realizzazione storica». E.S.- 25 giugno 2010


Caro Ernesto,
è nota la tua avversione per Hegel e la dialettica, e in questa disposizione non rischi certo di sentirti solo. Sarà per questo, forse, che sei il primo a stupirti nello scoprire che quello che a te sembrava la costruzione di un paradosso altro non era che l'anticipazione della realtà. Il tuo indegno editore, però, aveva colto che la cortocircuitazione di elementi apparentemente eterogenei, se non opposti – democrazia-dittatura, Stato-azienda – non avrebbe condotto che a rivelare contraddizioni, contraddizioni reali, rilasciando come effetto collaterale, e riprova, uno sciame di ossimori e poi di chiasmi. Nel tuo libro non manchi – nell'Appendice – di individuare il processo. Le forme che la scienza economica ha determinato e liberato – le forme, Ernesto, le forme – apparivano come il prodursi di chiacchiere nella testa degli economisti, e invece rappresentavano interessi in conflitto. C.D.B.- 28 giugno 2010


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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