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Mario Lunetta
CANI ABBANDONATI

pp.232 € 14,00

 

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Ventiquattro pezzi di Mario Lunetta variamente datati e di assai diversa natura e profilo, eppure accomunati da un’ottica stringente: quella della velocità meditata della lingua. È, quella di questi racconti, una lingua che non costruisce mediazioni, e invece determina cortocircuiti brucianti; un medium non garantito dunque, che mette in gioco tutte le sue risorse come un gambler vizioso alla roulette, e non attende risarcimenti che non siano quelli strettamente legati all’intensità della sorpresa. Il lettore non deve aspettarsi da questi testi nessuna connivenza, nessuna ruffianeria. La loro morale non intende essere in alcun modo la stessa di chi li accosta perché è una morale intrinseca allo stile e perciò non ha coda e non lascia bave di sorta. Se è una lumaca, è una lince truccata. Se è una lince, è un ippopotamo cieco. Insomma, gli animals spirits di questi racconti dell’autore di Montefolle risultano inaddomesticabili e da fruire con sospetto, anche quando si presentino con modi cerimoniosi e impeccabile limpidezza formale. Li caratterizza, alla fine, una spietata pietà: quella stessa a cui rimanda il titolo, che in una metafora povera vuole racchiudere l’imperdonabile orrore del mondo.
Si raccolgono in questo volume, oltre ad alcuni inediti, altri racconti che hanno già visto la luce su quotidiani e periodici tra la fine degli anni Settanta e i Novanta.
La principale ragione per cui è parso legittimo ordinarli in volume consiste nel fatto che si tratta di testi tra loro apparentati da un carattere metanarrativo, quando clamoroso quando implicito. In quasi tutti, il côté teorico-saggistico si abbranca alle zone più esplicitamente diegetiche come una camicia di Nesso. L’asse che li sottende, allora, non può che essere strenuamente stilistico. Ecco perché chi li firma crede che questi testi abbiano soprattutto il senso di perfidi esercizi di scrittura, la cui legittimazione sta eventualmente in una autonomia (si stava per dire, in una assolutezza) capace di difenderne almeno l’onestà, in quanto scandagli inventivi lanciati nella palude sorda del mondo. Ciò non vuol dire, ovviamente, che questa autonomia linguistica implichi una separatezza “poetica” dal magma dell’esistenza; ma che, al contrario, assuma la responsabilità di decifrarlo (per quanto possibile) coi mezzi di una letteratura che non rinunci ai propri azzardi, interrogazioni, inclinazioni specifiche: con tutta la consapevolezza che l’impresa comporta. Ci sono, in questi ventiquattro racconti, molti elementi discordanti e intrecciati: il dolore, l’eros, l’orrore, la paura, il senso di colpa, lo smarrimento dell’identità, la morte. E infine, il disperato amore per il mestiere di scrivere, tema che è forse il più profondamente risonante al loro interno. L’autore ha cercato di renderne il temibile spessore affidandosi, manieristicamente e in modi surreali, a certi Grandi Fantasmi della creatività letteraria; o allestendo un piccolo scenario paròdico; o proponendo francamente un racconto-saggio di chiara impronta allegorica. Il resto, è allegria e incoscienza: altra allegria, si spera, e altra incoscienza.

 

Mario Lunetta (Roma, 1934), poeta, narratore, critico e drammaturgo. I suoi titoli più recenti: per la poesia, Lettera morta, 2000; per la narrativa, Montefolle, 1999; per la saggistica, Invasione di campo, 2002. Per Odradek: Soltanto insonnia, 2000; insieme a F. Muzzioli e S. Sproccati, cura lAlmanacco Odradek di Scritture antagoniste.

Francesco Muzzioli su
MARIO LUNETTA, Cani abbandonati, Odradek, 2003

Non è facile, di questi tempi, nella prevalenza commerciale dei testi-sceneggiature, tenere insieme la qualità della narrazione e quella della scrittura. Lunetta lo fa. Nelle sue pagine si racconta e si trovano i “casi”, le sorprendenti scoperte, i ribaltamenti imprevisti, gli orrori più o meno espliciti; ma si elabora anche il linguaggio con le capacità “semiotiche” di esprimersi attraverso i dettagli e le immagini. C’è il ritmo consecutivo dell’azione (“Percorsi un breve corridoio, vidi che la stanza di destra aveva la porta spalancata. Mi fermai”), ma c’è anche la figurazione della scena (“La notte cresceva, fino a impennarsi su due, tre pinnacoli di silenzio, quindi precipitava in un gorgo di fruscii, di tossi, di scoppi, di nuovi ululati, di motori ringhianti”) che volge verso l’allegoria. Il testo, insomma, comunica sia attraverso il “cosa dice”, che mediante il “come lo dice”.
I riferimenti di cui sopra sono tratti dall’ultima raccolta di racconti di Lunetta, dal titolo Cani abbandonati. Qui la vocazione al poligrafismo (che significa in sintesi: gioco a tutto campo e imperativo a utilizzare tutti gli spazi che si offrono) l’autore la esercita sfruttando le diverse forme del testo breve: dal racconto a enigma o a tematica criminale, alla riscrittura e alla metanarrazione di caratura saggistica, al dialogo paradossale, alla prosa onirica, in una girandola di stili e di impostazioni enunciative (io narrante, terza persona, dialogato o narratori alterni) che tende – nell’arco dei ventidue pezzi che compongono il libro – a cambiare continuamente, a vantaggio della ginnastica intellettuale del lettore.
Questa fantasmagorica e abilissima varietà ha per sfondo costante il disagio e degrado sociale in cui viviamo; un panorama opaco ed oscuro, uno spazio caotico in cui esplodono sintomi inquietanti (come il latrare dei cani che offre il titolo complessivo del libro) e in cui l’arco narrativo è inevitabilmente condotto a virare verso il peggio, trovando termine nella morte, preferibilmente violenta. A questa tendenza dissolutiva non sfugge nemmeno la figura stessa del narratore e dello scrittore. Da tempo Lunetta è al lavoro, quant’altri mai, sul fronte dell’abbassamento dell’io, con cariche fortemente autoironiche. Anche qui l’io è condotto davanti allo specchio della crisi dell’identità (fino alla domanda radicale “IO sono io?”), polverizzato nella giostra di sosia e di doppioni, infine messo di fronte – al punto massimo della degradazione – alla complicità con quella società volgare, prepotente e nociva da cui pretenderebbe differenziarsi (a questa reimmersione nel sociale non si sfugge: “anche se non hai mai ucciso materialmente nessuno, tu sei un assassino”). Pure là dove compare un “egli”, non è altro che un “io” camuffato e spostato giusto di quel tanto che dà agio alla sua resa oggettivata e straniata, oppure al suo feroce smascheramento.
Racconto “crudele”, da vera “poetica dell’orrore” (quella che l’autore ha dichiarata e sostenuta di recente in varie sedi), il testo di Lunetta va ormai naturalmente verso il racconto di crimine, il noir, come miglior forma di rappresentazione del conflitto e della dissoluzione dei rapporti sociali, e dunque della “impossibilità del dialogo”. Una impossibilità che investe anche la tematica erotica, dove il nostro autore evita le facili soluzioni a base di patetico e mette in evidenza la precarietà della relazione tra i sessi: basta un niente, ovvero basta un segno, anzi il rovescio di un segno, come nel gilè rivoltabile indossato al contrario (nel racconto che ha per titolo appunto Double face), a dimostrare il tradimento e a ribaltare l’atmosfera idilliaca dell’amore nell’accecante tormenta dell’odio.
All’“impossibilità del dialogo” – che stride con l’illusorio buonismo del dialogo dato per scontato – fa da pendant il “dialogo impossibile”. Tale è il dialogo con la letteratura del passato, che fa riemergere dall’archivio del già-scritto le figure e i personaggi-autori. La forma del Capriccio, ossia dell’invenzione fantastica, consente di incontrare Dostoevskij (nei panni di un bizzarro commesso in cirillico), Rossini perseguitato da Giulio Cesare, Leopardi e le mummie di Ruysch, Wilde sottoposto a dibattito, Scott Fitzgerald o Cézanne. La riscrittura attraversa il tempo e ne sospende le leggi, viola il verosimile producendo incontri inopinati, insidia la serietà della letteratura volgendosi verso la parodia, rompe il diritto di proprietà della scrittura nonché il sigillo del ne varietur, rimette in circolo solide reputazioni. Nella riscrittura lo stesso riverito nome dell’autore medesimo (indicato con le sigle Emme Elle o M. L., o semplicemente L.) fa capolino e sparisce mescolato tra i suoi soggetti di carta. Un personaggio che consente l’attraversamento delle posizione letterarie è infine, nel racconto conclusivo, nientemeno che il diavolo, che riprende la parola come accompagnatore e alter ego: è lui, fin dall’inizio della partita letteraria, a guidarla verso il lato “raffinato e sulfureo” della “spregiudicatezza”, dell’insubordinazione e dell’alternativa, in difesa della “libertà e dell’indipendenza”. Il diabolico come equivalente dell’inesauribile e bizzarra inventiva, ma anche (come tale compariva di recente nel Lunetta degli splendidi dialoghetti de La mela avvelenata) come rappresentante della critica dei valori consolidati e della avversione al conformismo: quel diaballein, quel mettersi di traverso, è precisamente non altro che l’obbligo di questa scrittura alla continua “deviazione”.
In osservanza di questo principio, la narrazione deve essere condotta al punto limite del narrativo. È il punto in cui la scrittura esplode e predomina sulla finzione, i fatti e l’azione, che le sono necessari come traliccio. In questo ultimo libro lunettiano, tale limite s’incontra nel pastiche, nella confusione di mosse e di personaggi (come nello spezzone di film all’interno di Freedom, che accumula movimenti grotteschi e inverosimili iperboli: “Insomma, per non tirarla troppo in lungo, i frammenti suddetti bucarono la mozzetta del Santo Padre, impattarono Saturno, ferirono il muso di Marte, si sparsero infine per il cosmo di tenebra in una specie di festino dissennato e ubriaco”); oppure nella scrittura del sogno e nella sua chiave puramente allegorica (dove, in Un cortile sporco e vuoto, rotolano matrjoske, lasciando uscire zanzare e cicale…); ovvero, ancora, nella scena della “crudeltà” che si accampa isolata nella lucida allucinazione dell’incubo (il lutto cannibalico di Cadaveri di famiglia).
Il lettore, qui, non è invitato a correre appresso all’intreccio né a immedesimarsi in emozioni predeterminate, ma a compiere un percorso nervoso e sospeso, sempre in attesa del colpo a sorpresa che rovescerà la percezione normale, del graffio che solcherà la superficie rosea del reale, della fuga per la tangente del fuoco d’artificio linguistico. Nell’“Era della volgarità”, il cui personaggio emblematico è il cinico mercenario de L’intervista, la trama del racconto è uno slalom verso il momento decisivo della rivelazione del conflitto reale e verso l’opera demistificante della critica delle immagini e per immagini.
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