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Felice Accame
LE METAFORE DELLA COMPLEMENTARIETA'

pp. 152 Euro 15,00

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Anziché scrivere un ennesimo trattato sulle metafore, l’Autore ne prende una – quella della complementarità – e ne analizza gli usi nei più vari contesti, spaziando dal linguaggio alla logica, dai numeri ai colori, dalla chimica alla musica, dalla fisica alla psicologia, partendo dalla filosofia, naturalmente, per arrivare ai rapporti tra i sessi. All’analisi ineccepibile corrisponde un testo piano e godibile sia per gli specialisti, sia per il semplice utente della lingua, condotto a interrogarsi su quanto si guadagna e quanto si perde nell’uso, spesso inconsapevole, delle metafore. Completano il volume una gustosa appendice filosofica e un’utile bibliografia.
Come le persone, se le metafore hanno successo un cadavere nell'armadio della cultura di cui sono l'espressione ce l'hanno di sicuro. Colori, parole, rapporti numerici, angoli, intervalli musicali, truppe, molecole, giorni, alimenti, terapie, generi, caratteri psicologici, tasse, statuti ontologici e chissà quant’altro ancora, dalla prima filosofia greca alla fisica contemporanea, è assurto a dignità di un sistema classificatorio in cui, uno dei suoi elementi, è stato ritenuto complementare ad un altro. Una complementarità non la si nega a niente e a nessuno. Non c’è sapere che possa ritenersene immune. Maghi, scienziati ed artisti ci sguazzano.
Un forte desiderio d’ordine e di perfezione – la volontà di vivere nel migliore dei mondi possibili o, almeno, di sbandierarlo perché i più ci credano – governa l’evoluzione di questa categoria mentale e delle parole che, via via, la rappresentano. Felice Accame ricostruisce pazientemente alcuni contesti – quelli relativi alla teoria grammaticale, alla teoria dei colori e al principio di complementarità di Bohr, tra gli esempi principali – e, metodologia operativa alla mano, evidenzia processi di metaforizzazione non sempre innocenti.

Felice Accame (Varese, 1945) è docente di Didattica della comunicazione e presidente della Società di cultura metodologico-operativa. Tra le pubblicazioni più recenti: Analisi della partita di calcio, 1992; Scienza, storia, racconto e notizia, 1996; Pratica del linguaggio e tecnica della comunicazione, 1996. Con Carlo Oliva cura da oltre, per Radio popolare, la trasmissione settimanale "Caccia all'ideologico quotidiano". Con Odradek ha pubblicato "Dire e condire" e "Antologia critica al sistema delle stelle"

 

Andrea Garbuglia ha scritto un pregevole articolo, che risulta essere un'appassionata e ragionata recensione del libro di Felice Accame. Lo pubblichiamo volentieri, nella speranza che qualche viaggiatore della rete v'incappi.

MUSICA E COMPLEMENTARITÀ
Andrea Garbuglia


L’ascolto acusmatico è alla base di un certo tipo d’avanguardia musicale che fonda le sue composizioni sulla registrazione di suoni raccolti in natura, e sulla loro combinazione con materiale sonoro prodotto elettronicamente. Lo scopo è quello di creare dei veri e propri ‘paesaggi sonori’ (‘soundscapes’), dove materiali fisico-acustici registrati si combinano in modo inestricabile a quelli elaborati artificialmente. Anche se, come si può dedurre da questa breve e insufficiente definizione, le moderne tecnologie hanno un ruolo fondamentale nella musica elettroacustica, il concetto di ‘ascolto acusmatico’ (detto anche più semplicemente ‘ascolto ridotto’) trova il suo primo documentato antecedente nel metodo d’insegnamento adottato da Pitagora. Si dice, infatti, che Pitagora fosse solito insegnare ai suoi allievi nascosto da una tenda, di modo che gli studenti, una volta eliminata l’immagine della sorgente sonora, avessero la possibilità di concentrarsi esclusivamente sulle parole (mi sono occupato delle implicazioni teoriche e musicali legate a questa pratica in due articoli apparsi su “Hortus Musicus”, nn. 18 e 24). Pierre Schaeffer, nel suo “Traité des objects musicaux”, fa notare che gli apparecchi di registrazione e di riproduzione fonografica collocano l’ascoltatore in una condizione del tutto simile a quella in cui si trovavano i discepoli del filosofo di Samo. Questo, sempre secondo Schaeffer, è il presupposto grazie al quale i suoni possono assumere un valore oggettuale: dimenticata la sorgente sonora da cui derivano, i suoni possono assumere il valore di oggetti in sé e, come tali, essere sottoposti a vari tipi di trasformazione, che possono mantenere o stravolgere la loro struttura.
Piaccia o non piaccia, la musica che si fonda sull’ascolto acusmatico solleva non pochi interrogativi che riguardano l’essenza stessa della musica, non ultimi quelli che derivano dall’attribuire, in sede percettiva, un’importanza fondamentale alla ri-costruzione immaginaria degli oggetti (e – aggiungerei – dei gesti) che hanno prodotto i suoni ascoltati, nonché la spazialità in cui essi sono disposti, dove al termine ‘immaginario’ va attribuito lo spessore che esso ha assunto dopo i “quattro saggi sulla filosofia dell’immaginazione” che formano “La notte dei lampi” di Giovanni Piana (http://filosofia.dipafilo.unimi.it/~piana/).
Non v’è dubbio che le teorie di Schaeffer siano fortemente debitrici di una (non troppo) implicita metafora della complementarità che, mentre classifica gli oggetti da studiare, elimina quelli che decide di non indagare, perché considerati solo complementari, dando luogo, così, ad un’ideologica costruzione della realtà. “Il suono non è solo un segnale – sembrano dirci questi musicisti – e il suo valore non può essere appiattito sulla fonte della loro produzione”. “Vivaddio!” verrebbe da rispondere, chiedendoci legittimamente se queste persone non stiano pensando di essere loro i primi inventori della musica. Da che mondo è mondo, l’uomo ha fatto musica basando il suo agire su di un presupposto fondamentale: il suono non è solo un segnale che ci rimanda ad una realtà extrasonora, ma è anche una possibilità che ha in sé un valore simbolico, essenzialmente diverso da quello che concettualmente gli si potrebbe attribuire. L’unica differenza è rappresentata dal tipo di suono in questione: quello della natura, da una parte, e quello degli strumenti, dall’altra. Ma accettando una simile distinzione come rilevante al fine dell’ascolto acusmatico, si finirebbe per tornare indietro di un centinaio di anni.
Il tono polemico che ho appena usato non ha però una reale ragion d’essere, visto che, come dicevo, le riflessioni teoriche legate all’ascolto acusmatico non sono affatto trascurabili. Ed è proprio pensando a queste che vorrei sviluppare alcuni appunti che ho preso leggendo il volume “Le metafore della complementarità” di Felice Accame (Odradek 2006). Il mio scopo non sarà quello di riassumere il contenuto di questo libro, né quello di spiegarlo a chi ancora non l’ha letto, né tanto meno di esprimere un giudizio a riguardo. Preferisco, invece, assumerne metodo e principio per indagare alcune questioni musicali, credendo che questo sia il modo migliore per dimostrare l’apprezzamento nei confronti di uno studioso.
La presenza del problema della complementarità anche in campo musicale è stata avvertita, ma non indagata, sin dalla pratica del basso continuo, e successivamente nello studio dell’armonia, attraverso l’uso dei numeri romani posti al di sotto del pentagramma, fino ad arrivare alle più recenti forme di analisi. In tutti questi casi, per quanto i metodi e le modalità di rappresentazione possano differire anche sensibilmente, lo scopo rimane sempre lo stesso: giungere ad una versione semplificata dello spartito, attraverso un processo di omissione e di relazione. Sia nell’omettere che nel porre in relazione è evidentemente in atto una qualche forma di metafora, ma solo nel primo caso possiamo parlare in senso stretto di complementarità. È importante sottolineare che si sta parlando ‘in senso stretto’ perché, almeno all’interno della musica tonale, si potrebbe dire che tutte le note sono complementari alla tonica, definita proprio per questo “fondamentale”. Comunque, è proprio nelle omissioni che si pratica una distinzione selettiva tra le note su cui si regge il brano e quelle che invece sono solo di complemento, di integrazione.
Un caso paradigmatico in questo senso è l’analisi schenkeriana. Heinrich Schenker, negli anni che precedettero la seconda guerra mondiale, ideò una forma di analisi musicale che in seguito venne ripresa e aggiustata da vari studiosi, tanto da far diventare l’espressione ‘analisi schenkeriana’ un’etichetta che, senza ulteriori specificazioni, rischia di essere priva di un contenuto oggettivo. Volendo individuare una sorta di zoccolo duro, potremmo dire che l’analisi schenkeriana si basa sull’assunto che i brani musicali, scritti con il linguaggio tonale, possano essere ricondotti a tre tipi di “struttura profonda”, composti, a loro volta, da una ‘Ursatz’ (struttura fondamentale), data invariabilmente dal succedersi dei gradi I – V – I della scala, e da una ‘Urlinie’ (linea fondamentale), formata da una scala discendente per gradi congiunti, che va dall’ottava alla tonica, dalla quinta (dominante) alla tonica o dalla terza (mediante) alla tonica. Le altre note che compaiono nella “struttura di superficie” del brano musicale (quelle che si trovano nello spartito originario) sono considerate accessorie, complementari. Vale la pena citare qui Nicholas Cook, il quale afferma che “l’analisi schenkeriana è […] una sorta di metafora secondo la quale una composizione è vista come l’abbellimento su vasta scala di una sottostante successione armonica molto semplice, o anche come una smisurata cadenza; una metafora in cui gli stessi principi analitici applicabili alle cadenze nel contrappunto rigoroso possono essere applicati, ‘mutatis mutandis’, alle strutture armoniche su vasta scala di interi brani” (N. Cook, “Guida all’analisi musicale”, Guerini e Associati, Milano 1991, p. 60). Sfortunatamente Cook non si dilunga oltre sul tema della metafora, ma l’errore sotteso ad un simile approccio non necessita di ulteriori delucidazioni: ridurre migliaia di composizioni a soli tre schemi non è sbagliato (nessuno ne sta mettendo in discussione la correttezza), bensì profondamente inutile, dato che se le opere musicali scritte con il linguaggio tonale hanno grossomodo la stessa struttura profonda, ciò che è interessante, proprio ai fini della musica stessa, non è tanto l’individuazione di tale struttura, quanto gli “abbellimenti” che le sono stati “aggiunti”. Ecco, quindi, che ad assumere valore sono, paradossalmente, proprio le note scartate dall’analisi schenkeriana: solo queste note, che potremmo chiamare complementari, riescono a dare senso a una semplificazione che, presa di per sé, non ne ha alcuno. Faccio notare che l’impiego dell’espressione ‘struttura profonda’ testimonia l’uso in campo musicale di metodi desunti dalla linguistica. Il metodo in questione – forse è superfluo ricordarlo – è la grammatica generativa di Noam Chomsky che, sicuramente non priva di problemi neppure all’interno della sua naturale collocazione, non ha dato in campo musicale risultati pienamente soddisfacenti.
La situazione non migliora anche se decidiamo di lasciare da parte Schenker. Ogni spartito, infatti, è già di per sé una forma di analisi, ottenuta sulla base di semplificazioni che derivano da scelte ideologicamente orientate, con le quali si decide cosa è complementare a cosa. Trascurando la messa in disparte degli aspetti esecutivi e improvvisativi, l’esempio più eclatante di semplificazione è dato proprio dalla rappresentazione delle note come punti in uno spazio. La notazione musicale non ha avuto sempre la forma che noi conosciamo, né l’elevato grado di perfezionamento a cui è giunta l’ha resa immune da cambiamenti che, sotto alcuni punti di vista, potrebbero essere considerati delle vere e proprie involuzioni. Tra le prime forme di notazione, ad esempio, possiamo ricordare quella neumatica, in cui i segni (linee di diversa forma e dimensione) poste al di sopra del testo verbale, indicavano l’andamento della melodia senza definirne né l’altezza né la durata. Oltre ai parametri appena ricordati, è evidente che, a differenza della notazione moderna, ciò che mancava ai neumi era la discretezza. I suoni non erano individuati in modo separato, ma come parti di una linea. Nella frantumazione che caratterizza la notazione diastematica il movimento melodico viene perso, anche se poi a livello percettivo, come ci ricorda Marco de Natale nella sua “Analisi della struttura melodica” (Guerini e Associati, Milano 1988), data l’uniformità timbrica, l’assenza di pause prolungate e la limitata estensione degli intervalli, la successione di due suoni non è sentita come un salto bensì come un percorso (cfr. p. 37). Dunque, la notazione moderna sceglie di rappresentare la puntualità delle note, lasciando in secondo piano il movimento melodico a cui la loro unione da origine. Accanto a questo, bisogna considerare che, usando un’espressione di Piana (“Filosofia della musica”, Guerini e Associati, Milano 1991), la nota-punto ha la caratteristica di cogliere nel “centro come una freccia il suo bersaglio” (p. 106). Ma chiunque abbia almeno una pallida idea di cosa sia un bersaglio si renderà conto che il punto in cui si conficca la freccia non costituisce che una piccola porzione dell’intera superficie. Scusandomi per la metafora (non è né la prima né l’ultima), che in questa sede è un po’ come nominare la corda in casa dell’impiccato, faccio notare che per le note accade più o meno la stessa cosa. La nota-punto nomina una frequenza particolare che, però, non è l’unica presente all’interno delle note che noi ascoltiamo. La frequenza indicata dalla nota-punto è quella più bassa, ed è quella che dà il nome alla nota stessa. Ma sempre all’interno della nota ci sono altre frequenze, che possono variare da strumento a strumento, e che ne determinano, appunto, il timbro. Ecco che, anche in questo, caso si pratica una scelta implicita: si distingue tra ciò che è fondamentale e ciò che invece può essere considerato semplicemente accessorio.
Con quest’ultima osservazione ci siamo avvicinati al punto da cui siamo partiti. La notazione diastematica, infatti, prendendo in considerazione solo uno degli armonici di cui è costituita la manifestazione fisico-acustica di una nota, svolge la stessa funzione della tenda o della registrazione nell’ascolto acusmatico. Lo spartito, lasciando fuori gli armonici, depriva il suono della sua materialità, del suo essere il prodotto di un corpo vibrante, e invita il lettore, ma anche l’ascoltatore, a concentrarsi sugli aspetti che la sua ideologia costitutiva considera rilevanti. In altre parole, lo spartito, come del resto ogni forma di notazione, pone i comunicati musicali in uno stato citazionale (Marcello La Matina si è occupato di questo nel suo “Il problema del significante”, Carocci, Roma 2001). Lo spartito ha svolto all’interno della storia della musica una funzione ben precisa: staccare la musica da un contesto. In particolare, potremmo dire che il costituendo rito Cristiano si è servito dello spartito per lasciar fuori dalla musica il mondo pagano, che collocava, invece, le ‘performance’ musicali all’interno di riti in cui parole, suoni e gesti formavano un tutt’uno inscindibile (derivato dalla ‘mousiké’ greca), e incomprensibile, una volta che l’uomo occidentale ha imparato ad ascoltare la musica con gli occhi. Non a caso la musica strumentale, così strettamente collegata alla gestualità, all’azione performativa dell’esecutore, è stata ammessa solo molto tardi nelle chiese (si vedano a questo proposito gli ultimi lavori di Marco de Natale pubblicati sulla rivista “Musica theorica – SPECTRUM”).
A me piace pensare che i confini della musica non siano solo quelli tracciati dallo spartito. La musica è anche l’oggetto e il gesto che l’hanno prodotta, è il contesto su cui essa si diffonde, è il corpo di chi l’ascolta, è il processo immaginativo ed empatico (penso, ad esempio, all’immedesimazione che un pianista può esperire nell’ascolto di un’opera per pianoforte), con cui l’ascoltatore, anche in una situazione acusmatica, riesce a ricreare ciò che non c’è, ma che comunque rimane parte integrante del comunicato musicale.
Voglio concludere queste brevi note mettendo bene in chiaro che la mia non vuole essere un’invettiva contro lo spartito, bensì un richiamare l’attenzione su quanto poco si sia riflettuto sulle implicazioni teoriche derivate dall’adottare un determinato sistema notazionale, e aprire su di queste una discussione che non può che prendere le mosse da “Le metafore della complementarità” di Felice Accame.
(Gennaio 2008)

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