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Cesare Bermani
"GUERRA GUERRA AI PALAZZI E ALLE CHIESE... "
Saggi sul canto sociale

PREMIO OMEGNA 2003
SEZIONE SCAFFALE


pp.388 € 18,00

 

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Dal 1958 il gruppo torinese di Cantacronache – sulla scia di una breve esperienza di Ernesto de Martino in Emilia nel 1951 – compie le prime approfondite ricerche sui canti sociali italiani.
Dal 1962 in poi – grazie al decollo del Nuovo Canzoniere Italiano e in seguito dell’Istituto Ernesto de Martino – il movimento di riscoperta del canto sociale eserciterà una profonda influenza su tutta quanta la cultura italiana, dalla musica leggera ai cantautori, dalla musica colta alla didattica musicale, dall’etnomusicologia alla storia (con particolare riferimento alle origini della nostra oral history).
Sino ad allora ci si era domandati se davvero l’Italia moderna avesse avuto un canto sociale, oltre le voci ormai rese ufficiali dall’innodia risorgimentale, fascista, di partito e dalle poche canzoni partigiane generalmente conosciute. E i più ritenevano, fondando il giudizio su quanto era sott’occhio, che ben povero era il nostro repertorio di canti sociali, rispetto ad altri paesi, e che non valeva certo la pena di correre dietro a fantasmi per trovarsi in pugno, dopo un’inutile fatica, qualche misera strofa e qualche retorico inno in più.
Le ricerche e le riflessioni di allora sul canto sociale hanno praticamente ribaltato quanto la cultura ufficiale aveva teorizzato in proposito; e oggi il nostro paese può contare su un invidiabile corpus di canto sociale in raccolte, in pubblicazioni a stampa e in dischi.
In un momento di nuovo grande interesse per il canto sociale, questo volume ripropone i principali saggi di uno dei maggiori protagonisti di quella battaglia culturale.

Il volume è corredato da circa quaranta partiture musicali.


Cesare Bermani (Novara, 1937), promotore e collaboratore dell’Istituto Ernesto de Martino (con sede attuale a Sesto Fiorentino), collabora anche con la Società di mutuo soccorso Ernesto de Martino di Venezia. Redattore e in alcuni periodi anche direttore della rivista "il nuovo Canzoniere italiano", curatore dei più importanti scritti di Gianni Bosio, è stato tra i primi a utilizzare criticamente le fonti orali ai fini della comprensione di passato e presente. Tra le sue molte pubblicazioni: Pagine di guerriglia (4 volumi in cinque tomi, 1971-’99), Una storia cantata (1997). Per Odradek: Spegni la luce che passa Pippo. Voci, leggende e miti della storia contemporanea, 1996; Il nemico interno. Guerra civile e lotta di classe in Italia (1943-1976), 1997; Introduzione alla storia orale (due volumi), 1999-2001.

Cesare Bermani e Paolo Pietrangeli durante il récital del 9 settembre alla Festa nazionale di Liberazione a Roma.

Indice
Introduzione
Note ai testi
I parte Analisi critiche
I canti sociali italiani
“La Marsigliese”: riflessi sul canto sociale del movimento operaio italiano
Pierre Degeyter, contestato autore della musica de “l’Internationale”
Come nacque l’“Inno dei lavoratori”
L “Inno del sangue”
“Goarda là côla pianüra”. Un canto sociale di non facile razionalizzazione
“La povera Rosetta”
“Fuoco e mitragliatrici”. Precisazioni su un canto della Prima guerra mondiale
Le origini di “Bandiera rossa”
Lo “chansonnier” del comunismo italiano
L’«Ordine Nuovo» e il canto sociale
Come nacque “Fischia il vento”
La “vera” storia di “Bella ciao”
Alfredo Bandelli, “anarchiste en poète”
II parte Ricerche sul campo
Esperienze politiche di un ricercatore di canzoni nel Novarese
“Addio padre e madre addio”. La guerra cantata
Studi e ricerche sul canto di risaia: un primo bilancio
Lotta e comunicazione

Bibliodiscografia del canto sociale italiano


RECENSIONE


l’Unità, 7 dicembre 2003, p. 21.

“Mondine o partigiani: chi cantò prima "Bella ciao"?”
,
Cos’è il “canto sociale”, come si lega alla battaglia politica, all’idea di musica popolare. Le risposte in un libro, splendido, di Cesare Bermani.

Franco Fabbri,


Perché la canzone "ufficiale" della Resistenza è Bella ciao, anche se i partigiani cantavano di più Fischia il vento? E cos'è la "versione delle mondine", quella inclusa nell'album ll fischio del vapore di Francesco De Gregori e Giovanna Marini? Le risposte a queste e a molte altre domande si trovano nella raccolta di saggi sul "canto sociale" di Cesare Bermani, pubblicata da Odradek col titolo Guerra guerra ai palazzi e alle chiese (un verso de L'inno dell'Internazionale, sull'aria della Marsigliese, circa 1874).
Non preoccupatevi: le risposte verranno date anche qui, e il bel libro di Bermani non è una raccolta di fatterelli, buona per una serata di quiz in qualche vecchia Casa del Popolo. Tutt'altro. Ma è lo stile dell'autore, la tenacia con la quale rincorre e quasi sempre trova documenti e prove decisive, a suggerire il paradigma indiziario per questi saggi storico-antropologici rigorosi, densi, di lettura appassionante. Quasi sempre? Sì, perché ad esempio la vicenda della "versione delle mondine" di Bella ciao non è ancora conclusa, e Bermami ci lascia in sospeso al termine del saggio, dopo aver smontato e rimontato i fatti più o meno noti, e quelli di cui solo pochi ricercatori sono a conoscenza. Ci torneremo fra poco, abbiate fiducia.
Ma cos'è il "canto sociale"? Dai titoli si intuisce che abbia a che fare con gli inni e le canzoni politiche e con il canto popolare. Bermani usa questa espressione consapevole delle contraddizioni insite nell'impiego disinvolto della categoria del "popolare". Se popolare, per consuetudine etnomusicologica, è sinonimo di contadino e di tradizione orale, allora gli inni di lotta, dei quali è rintracciabile un originale scritto, e che in buona parte sono nati dalla penna di intellettuali urbani, non possono essere iscritti nella categoria del popolare, se non in quanto il loro uso, la proliferazione delle modalità esecutive e delle varianti, i metodi di ricerca di chi voglia studiare questo materiale sono riconducibili a quelli tipici della musica di tradizione orale. Allora Bermani ricorre a un termine diverso per l'oggetto delle sue inquisizioni, e ci ricorda che "il canto sociale è quindi, sin dalle sue origini, fenomeno di frontiera tra culture ufficiali (sia dominante che di opposizione) da un lato e culture popolari dall'altro, utilizza a volte testi e musiche provenienti dalle culture egemoni (...), a volte di produzione popolaresca (...), a volte interni alla produzione popolare".
Insomma, in modo davvero esemplare Bermani ci mostra come per studiare un insieme di musiche occorra prima di tutto riflettere sulle categorie. E la categoria "canto sociale" riunisce musiche di origini e caratteristiche disparate, riunite dall'uso e dalla funzione. Parafrasando Gramsci si potrebbe dire: non conta se questi canti siano nati sociali, ma se sono stati accolti come tali. Difficile obiettare. Eppure, un tempo l'identificazione fra popolare e contadino esercitava un'attrazione irresistibile proprio sui ricercatori delle tradizioni, che al tempo stesso coltivavano la canzone politica cercando di modellarla su quelle tradizioni. Si discuteva se il canto popolare fosse di opposizione in sé, o se il ricercatore e l'operatore di folk revival dovesse privilegiare il repertorio che - si sarebbe detto allora - sviluppava al massimo grado la coscienza politica delle masse.
Ecco, la storia della Bella ciao delle mondine inizia da qui. Quando Giovanna Daffini, mondina e cantastorie, cantò davanti al microfono di Gianni Bosio e Roberto Leydi una Bella ciao nella quale ai noti versi del partigiano che ha "trovato l'invasor" era sostituita la descrizione di una giornata di lavoro delle mondine, non parve vero di aver rintracciato l'anello mancante fra un inno di lotta, espressione della più alta coscienza antifascista, e un precedente canto di lavoro proveniente dal mondo contadino. Nonostante qualche incongruenza e qualche sospetto, la versione venne accettata. E il Nuovo Canzoniere Italiano nel 1964 partecipò al Festival di Spoleto con lo spettacolo dal titolo Bella ciao. In quegli anni dei primi governi di centro-sinistra si compie quella che Bermani, riprendendo il concetto da Hobsbawm, chiama "l'invenzione di una tradizione". Bella ciao, una canzone cantata durante la Resistenza da sparse formazioni emiliane, e da membri delle truppe regolari durante l'avanzata finale nell'ltalia centrale viene sempre più frequentemente preferita nelle manifestazioni unitarie a Fischia il vento, canto di larghissima diffusione fra tutte le formazioni partigiane, riconosciuto nell'immediato dopoguerra come l'inno della Resistenza. Fischia il vento ha il "difetto" di essere basata su una melodia russa, di contenere espliciti riferimenti socialcomunisti ("il sol dell'avvenir"), di essere stata cantata soprattutto dai garibaldini. Bella ciao è più "corretta", politicamente e perfino culturalmente, anche se molti partigiani del Nord non la conoscevano nemmeno. Era poi un canto delle mondine, no?
No. Nel maggio del 1965 arriva una lettera all'Unità. La scrive Vasco Scansani, da Gualtieri, lo stesso paese della Daffini. Dice di essere lui l'autore della Bella ciao delle mondine, e di averla scritta nel 1951, basandosi sulla versione partigiana. Dice che la Daffini gli ha chiesto le parole, nel 1963. Allarmatissimi i ricercatori del Nuovo Canzoniere Italiano interrogano Scansani e la Daffini: si rendono conto, nella confusione delle testimonianze, che il mondo dei cantori popolari è più complesso e contaminato di quanto non credessero, che ci sono esigenze di repertorio, desiderio di compiacere il pubblico, e di compiacere gli stessi ricercatori. Parte un nuovo studio, si individuano tracce di Bella ciao in vari canti popolari, non si esclude che fossero parte anche del repertorio delle mondine: ma no, quella versione della Daffini è posteriore alla Bella ciao dei partigiani. La storia, come ho anticipato, non è finita: nel 1974 salta fuori un altro preteso autore di Bella ciao, ma di una versione del 1934: è Rinaldo Salvadori, ex carabiniere, che avrebbe scritto una canzone, La risaia, per amore di una ragazza marsigliese che andava anche a fare la mondina. Il testo, con versi come "e tante genti che passeranno" e "bella ciao", glielo avrebbe messo a posto Giuseppe Rastelli (futuro autore di Papaveri e papere, politicamente "più nero che rosso"), e la Siae dell'epoca fascista ne avrebbe rifiutato il deposito. Il resto della vicenda lo potete trovare nel libro, splendido e utilissimo, di Bermani.

Premio Omegna 2003, sezione Scaffale.
Dalla motivazione della giuria:
"Il ricco e denso libro di Cesare Bermani, Guerra guerra ai palazzi e alle chiese, pubblicato dalle Edizioni Odradek di Roma in collaborazione con la Società di Mutuo Soccorso Ernesto De Martino di Venezia nel marzo 2003, è un’organica raccolta di saggi sul canto sociale divisa in due parti, la prima di analisi critiche e la seconda di ricerche sul campo, corredata da estese citazioni di parole e musica, da fitte note e da quaranta pagine di bibliodiscografia. Ma il volume non è solo una summa di riferimenti imprescindibili per lo specialista erudito, bensì soprattutto un libro di lettura entusiasmante per giovani e meno giovani appassionati della nostra storia e una miniera per percorsi e approfondimenti ulteriori per insegnanti, studenti, studiosi. Le lotte popolari, sociali e politiche prima, durante e dopo la guerra antifascista rivivono, per vividissimi e concreti scorci, attraverso le canzoni e le loro storie, dall’Inno dei lavoratori a Bandiera rossa, da Fischia il vento e Bella ciao alla Ballata del Pinelli."

########

da Liberazione, 1 novembre 2008, p1/16
I borghesi cantavano "il Piave"
ma al fronte si cantava "Gorizia"

Scriveva Marx nel libro primo del Capitale, a proposito di macchine e grande industria: "Un sistema articolato di macchine operatrici che ricevono il movimento da un meccanismo automatico centrale soltanto mediante il macchinario di trasmissione, costituisce la forma più sviluppata della produzione a macchina. Quivi alla singola macchina subentra un mostro meccanico, che riempie del suo corpo intieri edifici di fabbriche, e la cui forza demoniaca, dapprima nascosta dal movimento quasi solennemente misurato delle sue membra gigantesche, esplode poi nella folle e febbrile danza turbinosa dei suoi innumerevoli organi di lavoro in senso proprio".
La guerra industrializzata, questa industria del macello umano specializzato, venne colta come un'estensione di questo sistema di macchine senza centro e periferia, che poneva in crisi qualsiasi lettura che muovesse dall'individuo e che dava la sensazione di partecipare a un evento non voluto dai suoi autori umani. Fu questa sensazione a influenzare massivamente la visione che i soldati ebbero di se stessi e della realtà circostante.
Scriveva, per esempio, Rudolf Bilding: "Sbaglia chi paragona questa guerra a un'antica campagna in cui le volontà degli avversari si fronteggiavano apertamente: in questa guerra entrambi gli avversari giacciono sul terreno e solo la guerra ha una propria volontà".
La grande guerra fu di trincea e - scrive padreva Agostino Gemelli - "La vita di trincea, ad eccezione dei periodi di azione difensiva (i bombardamenti) ed offensiva (gli attacchi) è così monotona e scolorita che determina una specie di restringimento del campo della coscienza. L'uniforme paesaggio che si stende dinanzi alla trincea, limitato dalla visibilità delle feritoie o dai fori praticati nei muricciuoli delle ridottine e degli appostamenti, è tale da rendere ancora più monotona la vita di trincea. Il cannone ha distrutto ogni germe di vegetazione; tra la propria trincea e quella nemica non vi è che un tratto di terreno sconvolto, più o meno ampio, di là e di qua i reticolati, paletti contorti, qualche straccio che il vento agita goffamente. E' un deserto. Non un movimento. Gli osservatori, le vedette, conoscono il terreno punto per punto, in ogni minuzia. Un ramo d'albero smosso, una palata di terra fresca, un sasso cambiato di posto sono avvertiti come gravi novità. A quando a quando, nelle giornate di tregua, romba d'un tratto un colpo secco di fucile che desta, come per eco, altri colpi; a quando a quando il rabbioso chiacchierare delle mitragliatrici. Poi di nuovo silenzio di morte".
La guerra di trincea è anche l'invisibilita del nemico, rendendo la terra di nessuno e la prima linea un mondo ignoto, per cui al di là del reticolato tutto è perturbante. Inoltre quell'invisibilità esasperava l'importanza del senso acustico e sembrava rendere l'esperienza della guerra particolarmente soggettiva e impalpabile. L'udito era infatti diventato più utile della vista per cogliere e individuare le fonti di pericolo.
Anche il rintanarsi del combattente fra e sotto la terra - una terra divenuta un labirinto di cunicoli, silenziosi, bui, in grado di fare perdere l'orientamento - veniva vissuta al contempo come rifugio e minaccia permanente, svolgendosi nel costante pericolo di cannoni e mortai che inducevano nei fanti una sorta di terrore totale.
E quel po' di eroismo che qualcuno poteva inizialmente avere avuto era stato seppellito da un lavoro monotono e continuo da scavafossi e dal susseguirsi dell'allestimento dei trinceramenti alle corvée e ai turni di guardia, effettuati da uomini spesso tormentati dalla fame e sempre da pulci, pidocchi e topi.
Infatti, come ebbe a dire quel grande disegnatore e grande interprete della Grande Guerra che fu Otto Dix, che pure era stato in precedenza accesamente interventista, «Pidocchi, ratti, filo spinato, pulci, granate, bombe, cunicoli, sotterranei, cadaveri, sangue, liquame, topi, gatti, artiglieria, sozzura, pallottole, mortai, fuoco, acciao: ecco cos'è la guerra. E' opera del diavolo".
C'era quindi molto ironia e rabbia nel cantare «Il general Cadorna / ha fatto un'avanzata. / Ha preso tutti i topi / che c'era in camerata».
Mentre l'inno per eccellenza di quel genere di guerra avrebbe potuto essere questo altro canto: "La vita del militare / non ci può più dolorare / patimenti e tribolazion / e l'onore è sensazion.// E' una vita da maledetto / che costretti l'abbiamo da far / che immaginar 'n si sa.// E dalle pulci siam mangiati /dai pidocchi tormentati/ ma 'i pigliamo a centinaia / ma 'i nella camicia e nella maglia / e ogni luogo nel capel / li schiacciamo col martel.// Come son grossi / han fino gli ossi /dal gran tormento tormento / e ben poco ci lascia dormir. // E fra topi e toponi / sono i nostri amiconi / anche certo il barbagian. / Con lor noi viviamo / e il rancio dividiamo.// E ciò che provvede / vogliamo mangiare /mangiar non possiamo / perché troppa miseria c'è".
In una guerra di trincea, dove la libertà d'azione era paralizzata dalla superiorità della potenza di fuoco difensiva sulle truppe attaccanti e mitragliatrici e barriere di filo spinato rendevano pressoché inespugnabili le linee di difesa, gli Stati Maggiori si convinsero di potere forzare quella situazione aumentando il fuoco offensivo delle artiglierie, combinato con i gas e con l'offensiva di enormi masse umane. Ma di solito anche pochi fucilieri nemici sopravvissuti al tiro preparatorio d'artiglieria erano in grado di fare terminare gli attacchi sul filo spinato. E anche se l'avanzata avesse avuto successo "dietro ogni breccia praticata nel sistema difensivo in questa guerra di trincea potevano essere scavate e fortificate nuove linee, prima che la forza attaccante riuscisse a spostare in avanti la propria artiglieria su quel deserto di fango e rovine che essa stessa aveva creato".
Quei tentativi di forzare la situazione non fecero altro che provocare immani macelli e aumentarono drammaticamente il senso di distacco tra Stati Maggiori e loro truppe, dando vita a più riprese a forme di ostilità reciproca. «Il general Cadorna / è il capo dei briganti./ Ordinava ai suoi soldati /dicendo sempre "Avanti!"// Bombe a man / e colpi di pugnal» recita una delle innumerevoli strofette che avevano per mira lo Stato maggiore italiano. E un'altra: «Sapete cos'ha fatto/ la nostra artiglieria?/ Ha massacrato tutta/ la povera fanteria// Bim bom bom / al rombo del cannon». Infatti anche la propria artiglieria era spesso per il fante il nemico più temibile e l'alleato migliore di coloro contro cui si combatteva.
Lo spirito offensivo e aggressivo che avrebbe dovuto caratterizzare il soldato, in una guerra divenuta difensiva da entrambe le parti, che per di più sembrava non potesse vedere la fine, lasciava inevitabilmente il posto ad atteggiamenti tesi a ridurre l'ostilità reciproca.
Si sapeva che ogni colpo di mortaio, raffica di mitragliatrice, scarica di fucileria avrebbe avuto una risposta. E quindi, a dispetto degli Stati Maggiori, si faceva di tutto per evitarle.
Così il cannoneggiamento del mattino si limitava a pochi colpi, e di solito indirizzati in certi punti delle trincee conosciuti da entrambe le parti e quindi sgomberati.
Dopo alcuni mesi di guerra, Era ormai consapevolezza diffusa tra i soldati di tutti gli eserciti belligeranti che essa era ormai priva di scopi ed aveva triturato qualsiasi precedente motivazione per combatterla.
Vi è una leggenda che può considerarsi il prolungamento di questo stato d'animo:
"... in qualche punto tra le due opposte linee si trovava un gruppo della forza di un battaglione (alcuni dicevano di un reggimento) di disertori semi-impazziti provenienti da tutti gli eserciti, alleati e nemici, che vivevano sottoterra perfettamente in pace tra loro in trincee, rifugi e buche abbandonati, donde emergevano la notte per saccheggiare cadaveri e procurarsi cibo e bevande. Quell'orda di selvaggi visse sottoterra per anni e infine si fece così numerosa e rapace e irrecuperabile che fu necessario sterminarla. Osbert Sitwell conosceva bene questa storia, e dice che i disertori comprendevano francesi, italiani, tedeschi, austriaci, australiani, inglesi e canadesi. Quegli essere barbuti, barcollanti nelle loro uniformi lacere e rattoppate erano un mito creato dalle sofferenze dei feriti come conseguenza delle angosce, delle privazioni e dell'abbandono o esistevano davvero? E' difficile dirlo. In ogni caso, la storia riscuoteva largo seguito tra le truppe, che sostenevano che lo stato maggiore generale non riuscì a trovare il modo di liquidare questi banditi fino alla fine della guerra, e che infine dovettero liquidarli coi gas" (Paul Fussel).
Questa leggenda suggerisce forse più di ogni altra un sentire comune a molti fanti di tutti i fronti: che il vero nemico di qualunque soldato è la guerra e non sono i soldati nemici.
La vita di trincea faceva poi sentire lontani non solo i propri Stati Maggiori ma anche la vita civile che si era lasciata alle spalle e, vedendo sempre meno le proprie azioni come parte di piani preordinati che avrebbero dovuto portare a precisi risultati, i fanti furono tra l'altro assillati almeno dal 1916 in poi dalla domanda: "Potrà mai finire questa guerra?". Scrive in proposito ancora Paul Füssel: "Non era necessario essere un pazzo o un visionario particolarmente depresso per immaginare in tutta serietà che la guerra non sarebbe mai finita e che sarebbe diventata la condizione permanente del genere umano. La situazione di stallo e il logoramento sarebbero continuati all'infinito, diventando, al pari del telefono e delle macchine a combustione interna, parte integrante dell'atmosfera ormai accettata dell'esperienza moderna".
E il maggiore Pilditch, considerando gli avvenimenti sulla Somme nell'agosto 1917, annota: «Entrambe le parti sono troppo forti perchè per ora si possa giungere a una conclusione. A questo ritmo chissà quanto durerà ancora, Nessuno di noi vedrà mai la fine, e i bambini che vanno ancora a scuola saranno chiamati a succederci».
Questo stato d'animo era diffuso su tutti i fronti.
Si aggiunga che nella guerra di trincea proprio di fronte a te sta la trincea nemica, cioè «...la strana terra in cui non potevamo penetrare, il "giardino oltre il muro" dei nostri incubi» (S. Casson).
"Sentire" una presenza sconosciuta vicina senza poterla vedere apre la strada alla più intensa proiezione della propria paura.
Scriveva Emilio Lussu: «E' da oltre un anno che io faccio la guerra un po' su tutti i fronti, e finora non ho visto in faccia un solo austriaco. Eppure ci uccidiamo a vicenda, tutti i giorni. Uccidersi senza conoscersi, senza neppure vedersi! É orribile! É per questo che ci ubriachiamo tutti, da una parte e dall'altra».
L'invisibilità del nemico e la necessità di autodifesa da ordini che appaiono e spesso sono insensati spinge i soldati di ogni fronte a rivolgere la propria ostilità verso ufficiali, stato maggiore, "patria". Da parte sua lo stato maggiore vede in questa ostilità una cospirazione e una volontà di non combattere, rese responsabili dei propri errori di conduzione del conflitto.
Un macroscopico esempio di ciò fu rappresentato dagli avvenimenti successivi alla rotta di Caporetto. Come mi ricordava il fante Giovanni Armandola, "dopo un po' ci han messo la fascia al braccio, ‘Brigata Foggia, traditori della Patria'; e dopo un po' ci han messo uno per uno, ‘qui bisogna andare al carreggio. Uno, due, tre... dieci, fuori; uno, due, tre... dieci, fuori' [...]: il dieci ha lasciato la pelle senza sapere il perché".
Ha scritto Mario Silvestri che nel periodo successivo a Caporetto "l'Italia tenne il fiato sospeso: ecco perché il nemico prevaleva! perché un pugno di rinnegati si erano prestati alla parte di Giuda; e frutto del tradimento era lo ‘sciopero militare'.
Al momento la spiegazione fu creduta, e con soddisfazione. Molto più profondo scoramento avrebbe provocato la denuncia delle cause reali della rotta di Caporetto: incapacità di comandi, errori marchiani, disubbidienze , impreparazione professionale, mancanza di addestramento. Se le vere cause fossero state conosciute e pubblicizzate, poteva anche farsi strada l'idea che il disastro fosse irreparabile".
In soccorso della menzogna arrivò allora anche E.A.Mario, che con "La leggenda del Piave", scritta nel giugno e completata nel novembre 1918, cioè a guerra finita, sembrò volere perpetuare la leggenda del tradimento a Caporetto, poiché la seconda strofa (poi soppressa) iniziava: «Ma in una notte trista/ si parlò di tradimento,/ e il Piave udiva l'ira e lo sgomento. / Ah! Quanto gente ha vista/ venir giù, lasciare il tetto/ per l'onta consumata a Caporetto…».
Non meraviglia quindi che i soldati cantassero così: "Il Piave mormorava / calmo e placido al passaggio /puzzavano li piedi di formaggio.// L'esercito marciava/ per raggiunger la frontiera/ puzzavano li piedi di gruviera.// Muti restaron/ nella notte i fanti./Puzzavano li piedi a tutti quanti…".
Vera "invenzione di una tradizione", "La leggenda del Piave" finì per imporsi a furia di essere eseguita in celebrazioni ufficiali e riti collettivi.
Ma al fronte i soldati cantavano ben altro, strofe come queste: "Maledetto sia Cadorna/ prepotente come d'un cane/ vuol tenere la terra degli altri/ che i tedeschi sono i padron.// E vigliacchi di quei signori/ che la credevano una passeggiata/ quando sentirono la loro chiamata / corsero a Roma e s'imboscar.// E quei pochi che ci resteranno/ l'anno venturo verranno a casa/ e impugneran la loro spada/ contro i vigliacchi di quei padron// La Quadruplice malintesa/ che di pace non vuol sentire/ ma non sa cosa sia soffrire/ là sul Piave a guerreggiar.// Dal governo siam malnutriti/ dagli ufficiali siam maltrattati/ i quattro Stati si son riuniti/ per distruggere la gioventù»
Notava ancora Mario Silvestri: «La vita in trincea aveva favorito nella truppa in linea un fiorir di canzoni su tutti gli aspetti della sua esistenza grama e pericolosa. Dalle canzoni dei soldati le parole della retorica convenzionale erano regolarmente bandite: niente Patria, Italia, Trento, Trieste… Questi motivi riecheggiavano tanto più intensamente quanto più ci si allontanava dalla zona di combattimento; e il massimo di frequenza era raggiunto dagli avanspettacoli e nei "cafés-chantants" delle grandi città. Qui gran tripudio di bandiere, il tricolore era sprecato: ballerine nei tre colori, strisce tricolori, quinte e sfondi tricolori. E quanto più lo spettatore si sentiva al sicuro, tanto più si spellava le mani nell'applauso».
"La Leggenda del Piave" nasce e si afferma qui , non certo in zona di combattimento.

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