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Davide Pinardi
IL PARTIGIANO E L'AVIATORE
Vite troppo brevi di vincitori e vinti
ugualmente dimenticati

pp. 221 Euro 16,00

 

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Due episodi reali e misteriosi.
A Milano, nei giorni della Liberazione, un giovane partigiano viene ucciso da altri partigiani che si giustificano con scuse assai poco credibili.
Nel cuore del Sahara una squadra di geologi trova per caso – dopo vent’anni – i resti di un aviatore italiano che si credeva precipitato al largo di Creta nel 1941.
Uno scrittore decide di ricostruire la breve vita e la tragica fine di due ragazzi morti durante la II Guerra Mondiale. Vorrebbe conoscere meglio le loro storie ma, mentre si documenta, si imbatte in stragi dimenticate, in mitologie corrose, in falsità reiterate senza riflessione o cautela. Scopre verità amare, ipocrisie condivise, complicità trasversali. Le sue stesse rassicuranti certezze entrano in crisi. Cosa deve fare, allora? Ricoprire tutto per “ragioni di opportunità”? O invece raccontare quanto ha trovato senza temere indignazioni di parte o prive di fondamento?
Decide di narrare. E questo saggio, che descrive la sua ricerca, ha il ritmo di un thriller, la densità di un romanzo e il sapore amaro di una tragedia greca.
Davide Pinardi (Milano 1952), scrittore e autore di cinema. Ha pubblicato: La storia segreta del Signor Correal, Rizzoli; L'Armée de Saint-Hélène, Calmann-Lévy; Il Valdese, Tranchida; Viaggio a Capri, Liber; Tutti i luoghi del mondo, Tropea; Il ritorno di Vasco e altre storie dal carcere, Marcos y Marcos.

Un libro che ha avuto numerose e significative recensioni (alcune riportate qui sotto) nessuna delle quali però ha saputo cogliere il carattere a nostro avviso più importante dell’elaborazione di Pinardi, e cioè la scrittura.

In un mondo di lettori condizionati e stregati dai generi è praticamente impossibile fare lo slalom tra di essi senza assimilarsi a qualcuno. Pinardi ci riesce con una scrittura adeguata al proprio oggetto. Qui sta il fascino del libro.

 

 

Giovanni Zucca sul suo sito (vedi sotto l'indirizzo) rilascia recensioni molto ben fatte e partecipate. Aveva già recensito Senza patto né legge, di Filippo Manganaro (vedi la scheda). Ora ritorna su un altro libro Odradek, questo Il partigiano e l'aviatore di Davide Pinardi.

 

«La memoria delle vittime dipende dall’identità dei loro assassini.» È una frase di Davide Pinardi, autore di noir, sceneggiatore e saggista che ben può racchiudere il significato e il valore di questo vibrante libro sul tema della Memoria, di cui raccomando caldamente la lettura.
Federico è un partigiano, di nobile famiglia, che viene ucciso a Milano subito dopo il 25 aprile 1945, data ufficiale della Liberazione dal nazifascismo. Ucciso non dai fascisti, ma da altri partigiani, in circostanze assai poco chiare.
Gianni è un aviatore, membro dell’equipaggio di un aerosilurante S.79 (un velivolo soprannominato “il gobbo maledetto”) della Regia (e fascistissima) Aeronautica italiana; ufficialmente caduto al largo di Creta, nel 1941. Ma il suo scheletro viene ritrovato nel deserto libico, da un gruppo di geologi, nel 1960…
Sembra l’inizio di un thriller, uno di quei bestseller che mescolano con disinvolta astuzia passato e presente e che hanno reso miliardario Clive Cussler. Invece è il punto di partenza di un saggio, una ricostruzione storica e narrativa che si legge e avvince appunto come un thriller, con la differenza che è tutto vero, documentato (e quando l’autore non è certo di quello che afferma, quando a partire dal materiale raccolto si avventura in ipotesi e supposizioni, lo segnala chiaramente e con onestà…). Due vite, due granelli di sabbia nel vortice della Seconda guerra mondiale, che di vite ne ha macinate a milioni. Eppure, tentando con pazienza certosina di ricostruire il mistero di queste due morti, Pinardi non solo si avvicina a una possibile (e forse probabile) verità, ma compie anche un viaggio nel passato recente dell’Italia, un viaggio che rivela un panorama poco confortante, in cui la storia (per forza di cose soggettiva, in quanto legata a modalità, volontà, onestà della ricostruzione e della narrazione che ne segue) è stata ed è troppo spesso piegata all’uso che ne fanno i vincitori (e di recente, vedi le polemiche furiose e talora squallide sul “revisionismo” di destra, anche certi sconfitti rimessi in gioco dalle contingenze della politica di basso conio…).
Sentiamo ancora l’autore. " L’Italia – cornice tanto importante di questa rappresentazione da diventarne a sua volta protagonista – non ne esce bene. L’Italia di allora ma anche l’Italia di tutti i decenni successivi. Continua a non ricordare. Eppure, probabilmente, non è un Paese senza memoria. Il problema è che pochi vogliono ricordare: a cosa serve? Se la memoria dà fastidio, se è un intralcio, se crea problemi, meglio cancellarla. Molto meglio deformare il passato e crearne uno di comodo in base alle convenienze del momento: prendere alcuni fatti più o meno noti, isolarli dal contesto, enfatizzarli e trarne pretesi insegnamenti universali politicamente utili ai potenti di turno. Se il trucco funziona, garantisce ai cortigiani carriere politiche e accademiche per qualche lustro…" (pag. 208).
Certo, in qualche modo lo sapevamo, lo sospettavamo. Ma sentirlo ribadire così, fa un certo effetto, e Pinardi lo dimostra con i fatti, con la narrazione, in parallelo a quella delle vicende del partigiano e dell’aviatore, anche della ricerca stessa: i testimoni sopravvissuti alla guerra decimati dal tempo, l’abbandono e la trascuratezza colpevole in cui sono lasciati documenti e archivi che andrebbero preservati come un tesoro nazionale, le versioni di comodo dei tanti doppiogiochisti, trasformisti e opportunisti dell’ultima ora. Specie numerosa, questa, in un paese largamente fascista (quanto meno “di comodo”, se non ideologicamente) fino al giorno prima e di colpo “partigiano” al momento di riscuotere i dividendi del dopoguerra; un paese che non ha saputo distinguere con correttezza e coraggio tra carnefici e assassini, in cui pochi hanno pagato e molti se la sono cavata senza difficoltà, spesso ricoprendo importanti posizioni negli apparati dello Stato… Tra Milano e il deserto libico, tra folle festanti e la morte in solitudine sotto il sole implacabile, lo scrittore improvvisatosi (con perizia e onestà intellettuale) ‘storico’ viaggia avanti e indietro nella vita e nella morte del partigiano e dell’aviatore; e noi lo seguiamo, sbirciando il suo quaderno di appunti, mentre ci racconta un pezzo di chi siamo, e di chi eravamo.

http://perso.wanadoo.fr/arts.sombres/polar/3_tribune_memoire_it.htm#giovanni

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Anche lettera.com rilascia schede ben scritte da redattori che hanno letto i libri che recensiscono. Incredibile!

Una ricerca molto dettagliata fa luce sulla morte di due ragazzi, avvenuta durante la Seconda Guerra Mondiale, in situazioni piene di mistero. Due avvenimenti quasi dimenticati, che Pinardi riprende proprio per la loro contraddittorietà.
Federico Balbiano di Belgioioso viene probabilmente ucciso per errore da un suo compagno partigiano; Gianni Romanini è un giovane aviatore disperso nel 1941 i cui resti sono però stati ritrovati vent'anni dopo in una zona diversa rispetto a quella presunta.
Man mano che procede in un'indagine piena di ostacoli fin dall'inizio, Pinardi si scontra con la difficoltà del recuperare testi e con quella di scoprire sempre nuove versioni dei fatti che, soprattutto per quanto riguarda Federico, si rivelano discordanti e contraddittorie.
Il discorso porta a considerazioni sulla Resistenza e sulla brutalità della guerra, andandosi ad inserire nella lunga lista di opere che analizzano la lotta tra fascisti e partigiani.
Sono passati sessant'anni dalla fine della guerra, ma questo argomento è ancora molto attuale, dato che relativamente a quel periodi ci sono ancora infiniti aspetti da scoprire ed approfondire.
Pinardi dimostra una grande tenacia, non lasciandosi abbattere dai continui rifiuti e dalle enormi difficoltà, arrivando alla fine a ricostruire una versione che potrebbe essere quella vera, tra tradimenti e voltafaccia all’interno degli stessi gruppi di persone che hanno collaborato alla ricerca.
Barbara Leone  (01-01-2006)


Vota il libro! Vai a http://www.lettera.com/libri/libro.jsp?id=5834

Una recensione nella rubrica LIBRI, apparsa senza firma, su Il Foglio di venerdì 20 gennaio 2006


Nell'arco di poche settimane uno scrittore si imbatte nelle misteriose storie di due giovani coinvolti in maniera opposta nella Seconda guerra monliale. Quel che li accomuna è l'avversa fatalità: un partigiano che a Milano, per ragioni incomprensibili, il 27 aprile 1945 viene ucciso da altri partigiani, e un aviatore dato per caduto nel mare di Creta nel 1941, i cui resti ricompaiono 19 anni dopo nel cuore del Sahara. Si incuiosisce, e decide di indagare, persuaso che non sarà difficile venire a capo di tutto in breve. Invece mesi dopo è ancora avvolto in un intrico di carte polverose, archivi fantasma, storie contraddittorie, specie per quel che riguarda il partigiano. Il quale, Federico Barbiano di Belgioso, spesso citato con cognome errato e di cui perfino l'ultima dimora appare avvolta nel mistero, risulta attivo sin dall'8 settembre in Giustizia e Libertà.
Combattente intrepido, ma anche pensatore accorto, pare fosse contrario, perché la riteneva irrilevante militarmente, politicamente sconveniente, all'insurrezione voluta principalmente dai conunisti e da alcune frange socialiste. I resoconti confusi sulle vicende della sua norte - vi sono versioni che lo vogliono ddirittura membro della X Mas - spingono lo scrittore, reso più ostinato dalla difficoltà, a scavare in quel che resta dopo ladri, alluvioni e ratti a Milano, Roma e Torino. E quel che trova è insieme causa di allarme e di scoramento. La X Mas in realtà c'entra, ma non era lui a farne parte, bensì personaggi vari raccattati dal capobanda del gruppo che uccise lui e i suoi compagni, un certo Marozin che disertore o meglio voltagabbana dell'ultimo minuto, si è invece conquistato un posto come eroe partigiano o quantomeno capopolo poco ortodosso ma estroso in più di un volume di storia della Resistenza.
Nel libro si alternano le vicende del partigiano e dell'aviatore, sia perché entrambe esemplari, sia perché l'autore rivelando un inedito episodio di corruzione e ipocrisia del regime fascista - l'aeronautica militare italiana era fondamentalmente priva degli strumenti essenziali per navigare in cielo in condizioni che non fossero di perfetto sereno in ore diurne - mette le mani avanti rispetto a possibili accuse di revisionismo antiresistenziale. Posizione storiografica e politica che l'autore apertamente aborrisce. Gli sembra però doveroso proprio in omaggio a chi ha combattuto onestamente e coerentemente, denunciare l'uso strumentale che taluni hanno fatto della guerra di Liberazione.
Davvero inquietante poi, per chi legge e certamente per l'autore, è il ruolo giocato dai socialisti autonomi e in particolare dall'uomo che diventerà il più popolare dei nostri presidenti della Repubblica, Sandro Pertini. Il quale, per dare una credibilità e un peso resistenziale che non avevano ai socialisti, presi di mezzo tra gli organizzati e preponderanti comunisti e azionisti, non esitò ad arruolare all'ultimo minuto veri avanzi di galera e dell'esercito di Salò. E Pertini in persona proteggerà Junio Valerio Borghese e il maresciallo Graziani.
Insomma, partendo da una piccola vicenda quasi irrilevante si apre un vaso di Pandora che arricchisce di ombre sinistre lo scenario già ambiguo e confuso della Milano di fine aprile 1945. Lungi dal profilarsi come un tutto lineare e uniformemente positivo, la Resistenza non solo lombarda si profila come un che di intricato e complesso, di cui si verrà a capo solo sviscerandone ogni aspetto. E cercando di capirlo. Meglio forse anziché Resistenza, parlare di Resistenze e valutarle in quanto tali, come suggerisce l'Autore.

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Una recensione di Felice Accame

Da “Caccia all’ideologico quotidiano”
Radio Popolare, 24 aprile 2005
Occultati fra i nidi del ragno
Nel 1942, lo studente Italo Calvino si trasferisce dall’Università di Torino a quella di Firenze, che lascerà nel 1944 per raggiungere i partigiani della Divisione Garibaldi nella sua terra, sui monti liguri. Nel 1947 pubblica il suo primo romanzo, Il sentiero dei nidi di ragno, dove, con gli occhi di un ragazzino segue vicende di confine, tra piccola malavita ed eroismi sognanti della Resistenza.
A metà degli anni Sessanta, in occasione di una ristampa, Calvino vi aggiunge una prefazione estremamente interessante. Non solo perché ammette che, al momento, “i discorsi sulla letteratura” gli danno “sempre più fastidio”, precisando trattarsi di quelli degli altri come dei suoi, ma perché, con leale incertezza, cerca di far comprendere e comprendere egli stesso cos’era stato il suo rapporto di persona e di scrittore con quella Resistenza cui aveva partecipato direttamente. Bene, già allora, Calvino accusava la “rispettabilità ben pensante” del primissimo dopoguerra e la retorica che della Resistenza mistificava la natura. Con onesta e dolente umanità diceva che, per molti dei suoi coetanei, “era stato solo il caso a decidere da che parte dovessero combattere” e che, per molti, “le parti tutt’a un tratto si invertivano, da repubblichini diventavano partigiani o viceversa; da una parte o dall’altra sparavano o si facevano sparare” e “solo la morte dava alle loro scelte un segno irrevocabile”. Il sentiero dei nidi di ragno, già allora, dunque, fu il riflesso di una “ostentazione di spavalderia quasi provocatoria” su due fronti: contro i “detrattori della Resistenza” e, “nello stesso tempo”, contro i “sacerdoti d’una Resistenza agiografica ed edulcorata”.
Ne Il partigiano e l’aviatore, Davide Pinardi porta a termine due tipi di indagine su quelli che, superficialmente, potrebbero essere classificati come due tipi di morti. La prima riguarda la morte di Federico Barbiano di Belgioioso, un partigiano ucciso a Milano il 27 aprile del 1945. Pinardi è preso dall’ingranaggio della curiosità storica perché, leggendo le cronache, i conti non gli tornano: Federico sembrerebbe ucciso per errore da altri partigiani – e così lui e la sua storia sono stati sepolti, consentendo, peraltro, che a commemorarlo anni dopo siano, contemporaneamente e ben separatamente, fascisti ed antifascisti. Le versioni di “come sono andate le cose” gli si moltiplicano tra le mani – ne conterà addirittura sette -, e, soprattutto, gli si deforma innanzi agli occhi la figura di partigiano che, per errore, l’avrebbe ucciso.
La seconda indagine riguarda Gianni Romanini, un militare, pilota d’aereo, sparito in Africa il 21 aprile del 1941, i cui resti vennero ritrovati nel deserto libico il 21 luglio del 1960. Anche qui, ovviamente, ci sono conti che non tornano – fra questi il fatto che il ritrovamento avviene in un punto molto lontano da dove si pensava che dovesse e potesse avvenire – e l’affettuosamente scrupolosa indagine di Pinardi rimette tante cose al loro posto. Ma, in questo gioco di immaginazione e pazienza, oltre ai cosiddetti fatti, capita a Pinardi di ricostruire la matrice di un pensiero nonché la gamma di quelle conseguenti opzioni comportamentali che, attingendo alla collettività di un’epoca – il fascismo -, colorano questo pensiero del sentimento di una persona, concedendogli pertanto le sue sfumature di individuo, prima, e di vittima, poi.
Da una prospettiva, allora, l’assassino è il fascismo: la mitologia del volo, l’orgogliosa spettacolarità del “Maresciallo dell’Aria” Italo Balbo, il dannunzianesimo che canta la macchina aerea, la retorica futurista dell’”esteta armato”, l’”uomo nuovo” e “moderno” che irride dall’alto ai beduini indifesi nella loro medioevalità. Ma dall’altra prospettiva le cose si complicano.
Federico è stato ammazzato da tal Giuseppe Marozin, detto “Vero”, e questo Marozin non ha soltanto una storia, ne ha due. In una è un eroe partigiano, un eroe cui inneggiano i manifesti affissi sui muri della Milano del 25 aprile, una “simpatica figura di capopopolo” – come scrivono gli agiografi della Resistenza. E una fotografia è lì ad attestarlo: è in piazza del Duomo, accanto a Pertini e a Bonfantini, in trionfo, acclamato, si gode l’agognato momento della liberazione dal nazifascismo. Nell’altra storia è meno acclamabile.
Fra i pochi altri, ne raccontava già Mario Bernardo nel 1969, in un libro intitolato con il sospiro di un bene perduto per sempre, Il momento buono, dove diceva che, in pratica, nel vicentino e nel veronese, Marozin non si è comportato molto diversamente dai nazifascisti, razziando quel che poteva, torturando ed uccidendo. Fascista, d’altronde, fino a poco prima – era stato in Spagna, ma dalla parte dei nazionalisti -, sarebbe stato strano si comportasse altrimenti. Tanto è vero che il comando dei partigiani l’aveva condannato a morte – una condanna alla quale Marozin e i suoi riescono a sfuggire, ai primi di novembre del 1944, scappando proprio a Milano, dove, nella versione beneficentista ed autobeneficentista di Pertini e di Bonfantini, Marozin si ritrova eroe. A nulla valendo – così andavano e così vanno le cose – lo sdegno dei partigiani che, invano, ne chiedono l’arresto. Ed è da eroe, dunque, che, nell’esercizio del suo mestiere, incappa nell’increscioso “incidente” di ammazzare Federico.
Agisce, in entrambi i casi, la medesima istanza di occultamento. Come se ci fosse un accordo segreto e mai esplicitato tra chi la storia la scrive e chi, poi, per poter ambire ad una quietudine socialmente ratificata, la impara, la ripete fino a crederci, la rifila a chi viene come quella moneta falsa che, purché accettata, diventa vera.
“Così mi guardo indietro”, ha scritto Calvino, “a quella stagione che mi si presentò gremita di immagini e di significati: la guerra partigiana, i mesi che hanno contato per anni e da cui per tutta la vita si dovrebbe poter continuare a tirar fuori volti e ammonimenti e paesaggi e pensieri ed episodi e parole e commozioni: e tutto è lontano e nebbioso, e le pagine scritte sono lì nella loro sfacciata sicurezza che so bene ingannevole”.
Note
Il partigiano e l’aviatore di Davide Pinardi è pubblicato da Odradek (Roma 2005). Il momento buono di Mario Bernardo venne pubblicato da Ideologie, a Roma nel 1969. L’esteta armato è il titolo di un saggio di Maurizio Serra, edito da Il Mulino, a Bologna nel 1990.

Sempre di Felice Accamevedi l'articolo su la Rivista anarchica

http://www.anarca-bolo.ch/a-rivista/309/29.htm

Il partigiano, l’aviatore e la macchina investigativa
Tra lo scienziato e lo storico la differenza è abbastanza chiara: il primo considera ripetibile quel che il secondo, di principio, considera ben fissato ad un posto ed a un momento, che, dunque, come tale, diventa irripetibile. Che, poi, certi storici, sulla base di confronti che sono sempre liberi di fare, amino raccontarci che, essendo il dato contesto simile a quell’altro, è lecito aspettarci in questo quel che è accaduto nell’altro, va interpretato più come la manifestazione – non sempre conscia – dei loro desideri di attualità, che non l’affermazione di un sapere indiscutibile. Che scienziato e storico, infine, possano condividere qualche aspetto della loro attività con il detective è ovvio: sono tutti impegnati a ricostruire narrazioni cui si chiede un minimo garantito, la coerenza.
Jurgen Kluver e Christina Stoica – in un saggio intitolato Un detective a tutto bit – raccontano della possibilità di automatizzare l’investigazione. Con le tecniche dell’intelligenza artificiale, o, più precisamente, con le reti neurali – marchingegni più o meno teorici che si vorrebbero imitino il cervello umano –, è stato analizzato Il mistero della cassapanca spagnola, un racconto di Agatha Christie, mettendo in competizione, per così dire, la macchina con il famoso detective Hercule Poirot. Chi dei due sarebbe giunto per primo ad individuare l’immancabile colpevole? Inutile dire che le risultanze di questi esperimenti sono penose: è ovvio, infatti, che il programma computeristico debba possedere il medesimo sapere che è a disposizione di Poirot per giungere alle medesime conclusioni. È ovvio che, fra questo sapere, non c’è solamente, che so, il grado di parentela del principale indiziato con la vittima, ma anche tutta quell’enciclopedia che specifica cosa sia un grado di parentela nonché una miriade di altre cose che Poirot sa per apprendimento progressivo e che la macchina di per sé non sa di sicuro. Ed è anche ovvio che, quando Kluver e Stoica dicono che la macchina in questione – la macchina investigatrice – “deve disporre di tutti i dati” si mettono in bel guaio. “Tutti” è una categoria mentale particolarmente infida: implica l’esaurimento di un catalogo, ma se preventivamente di questo catalogo non viene fornito il criterio tramite il quale compilarlo, ecco che “tutti” non designa più alcunché. Quel che è un “dato” per qualcuno, può esser ricondotto ad un altro “dato” da qualcun altro, perché il “dato” non è mai tale e, piuttosto, è un “costruito”.
L’idea del computer detective è vecchiotta, peraltro. Nell’edizione italiana di “Playboy”, Italo Calvino pubblicò L’incendio della casa abominevole, un racconto che, più tardi, avrebbe dovuto diventare un romanzo dal titolo “L’ordine del delitto”. Rimase soltanto alla stato di bozza, ma in esso era già chiara l’idea del programma computerizzato per risolvere una catena di delitti: i personaggi erano quattro, le azioni transitive erano dodici (tipo “spiare”, “strangolare”, “ricattare”, etc.) e la combinatoria delle eventualità ottenute da Calvino ammontava ad un numero composto da tredici cifre. Roba da computer, per l’appunto, in linea con le curiosità di un Calvino nei confronti dei giochi letterari e della linguistica computazionale – un Calvino ormai lontano dai tempi de Il sentiero dei nidi di ragno.
Esautorando il computer, invece, ne Il partigiano e l’aviatore, Davide Pinardi porta a termine due tipi di indagine su quelli che, superficialmente, potrebbero essere classificati come due tipi di morti. La prima riguarda la morte di Federico Barbiano di Belgioioso, un partigiano ucciso a Milano il 27 aprile del 1945. Pinardi è preso dall’ingranaggio della curiosità storica perché, leggendo le cronache, i conti non gli tornano: Federico sembrerebbe ucciso per errore da altri partigiani – e così lui e la sua storia sono stati sepolti, consentendo, peraltro, che a commemorarlo anni dopo siano, contemporaneamente e ben separatamente, fascisti ed antifascisti. Le versioni di “come sono andate le cose” gli si moltiplicano tra le mani – ne conterà addirittura sette – , e, soprattutto, gli si deforma innanzi agli occhi la figura di partigiano che, per errore, l’avrebbe ucciso.
La seconda indagine riguarda Gianni Romanini, un militare, pilota d’aereo, sparito in Africa il 21 aprile del 1941, i cui resti vennero ritrovati nel deserto libico il 21 luglio del 1960. Anche qui, ovviamente, ci sono conti che non tornano – fra questi il fatto che il ritrovamento avviene in un punto molto lontano da dove si pensava che dovesse e potesse avvenire – e l’affettuosamente scrupolosa indagine di Pinardi rimette tante cose al loro posto. Ma, in questo gioco di immaginazione e pazienza, oltre ai cosiddetti fatti, capita a Pinardi di ricostruire la matrice di un pensiero nonché la gamma di quelle conseguenti opzioni comportamentali che, attingendo alla collettività di un’epoca – il fascismo –, colorano questo pensiero del sentimento di una persona, concedendogli pertanto le sue sfumature di individuo, prima, e di vittima, poi.
Da una prospettiva, allora, l’assassino è il fascismo: la mitologia del volo, l’orgogliosa spettacolarità del “Maresciallo dell’Aria” Italo Balbo, il dannunzianesimo che canta la macchina aerea, la retorica futurista dell’“esteta armato”, l’“uomo nuovo” e “moderno” che irride dall’alto ai beduini indifesi nella loro medioevalità. Ma dall’altra prospettiva le cose si complicano.
Federico è stato ammazzato da tal Giuseppe Marozin, detto “Vero”, e questo Marozin non ha soltanto una storia, ne ha due. In una è un eroe partigiano, un eroe cui inneggiano i manifesti affissi sui muri della Milano del 25 aprile, una “simpatica figura di capopopolo”. E una fotografia è lì ad attestarlo: è in piazza del Duomo, accanto a Pertini e a Bonfantini, in trionfo, acclamato, si gode l’agognato momento della liberazione dal nazifascismo. Nell’altra storia è meno acclamabile.
Fra i pochi altri, ne raccontava già Mario Bernardo nel 1969, in un libro intitolato con il sospiro di un bene perduto per sempre, Il momento buono, dove diceva che, in pratica, nel vicentino e nel veronese, Marozin non si è comportato molto diversamente dai nazifascisti, razziando quel che poteva, torturando ed uccidendo. Fascista, d’altronde, fino a poco prima – era stato in Spagna, ma dalla parte dei nazionalisti –, sarebbe stato strano si comportasse altrimenti. Tanto è vero che il comando dei partigiani l’aveva condannato a morte – una condanna alla quale Marozin e i suoi riescono a sfuggire, ai primi di novembre del 1944, scappando proprio a Milano, dove, nella versione benefica di Pertini e di Bonfantini, Marozin si ritrova eroe. A nulla valendo – così andavano e così vanno le cose – lo sdegno dei partigiani che, invano, ne chiedono l’arresto. Ed è da eroe, dunque, che, nell’esercizio del suo mestiere, incappa nell’increscioso “incidente” di ammazzare Federico.
Nel risalire di responsabilità in responsabilità si può andare indietro all’infinito. Il momento buono per fermarsi è indice della sensibilità di un’epoca e di una persona che in quest’epoca vive con un quadro di valori che è di tutti quanto suo. Dove Pinardi entra in crisi – allorché i dati gli si contraddicono e le categorie alle quali è stato educato non gli bastano più e, anzi, sembrano portarlo fuori strada –, il marchingegno dell’intelligenza artificiale non arriva ancora.
Il sentiero dei nidi di ragno è del 1947. A metà degli anni Sessanta, in occasione di una ristampa, Calvino vi aggiunge una prefazione estremamente interessante. Non solo perché ammette che, al momento, “i discorsi sulla letteratura” gli danno “sempre più fastidio”, precisando trattarsi di quelli degli altri come dei suoi, ma perché, con leale incertezza, cerca di far comprendere e comprendere egli stesso cos’era stato il suo rapporto di persona e di scrittore con quella Resistenza cui, dal 1944, sui monti liguri, aveva partecipato direttamente. Bene, già allora, Calvino accusava la “rispettabilità ben pensante” del primissimo dopoguerra e la retorica che della Resistenza mistificava la natura. Con onesta e dolente umanità diceva che, per molti dei suoi coetanei, “era stato solo ih caso a decidere da che parte dovessero combattere” e che, per molti, “le parti tutt’a un tratto si invertivano, da repubblichini diventavano partigiani o viceversa; da una parte o dall’altra sparavano o si facevano sparare” e “solo la morte dava alle loro scelte un segno irrevocabile”. Il sentiero dei nidi di ragno, già allora, dunque, fu il riflesso di una “ostentazione di spavalderia quasi provocatoria” su due fronti: contro i “detrattori della Resistenza” e, “nello stesso tempo”, contro i “sacerdoti d’una Resistenza agiografica ed edulcorata”.

P.s.: Ne Il partigiano e l’aviatore di Pinardi, fanno anche la loro comparsa – non sempre luminosissima – alcuni dei personaggi che compongono l’iconologia degli Gli anarchici e la Resistenza, in “A” 307. Andrebbe allora rammentato che Perelli, Pietropaolo e Bruzzi, per esempio, figurano come interpreti minori di quell’inquietante caso che, nel 1921, fu l’attentato al Diana. Bruzzi è imputato, ma, francamente, non ho mai capito di cosa. Perelli, invece, è stato condannato, perché era stato sorpreso, per strada, nella stessa sera dell’attentato al Diana, mentre, con altri, si dirigeva verso la sede dell’“Avanti!”, dove, secondo le sue parole al processo, avrebbero voluto fare una “dimostrazione”, con bomba. La sua carriera politica virerà più tardi in direzione del Partito Socialista Italiano e, infine, verso il Partito Socialdemocratico. Anche a Pietropaolo toccheranno 16 anni e 11 mesi di carcere. A Germinal Concordia viene ascritto il merito di aver liberato Villa Triste, a Milano – la nota sede dei torturatori della banda di Pietro Koch –, ma, a quanto risulta da più parti, già Mussolini, verso la fine del 1944, si era dato da fare in proposito ordinando l’arresto di Koch (che scappa e si consegna alla questura di Firenze tempo dopo). Alla fine del 1945, comunque, Germinal Concordia – con Perelli e Pietropaolo – fonda una Federazione Libertaria Italiana che sembrerebbe piuttosto orientata alla partecipazione elettorale e, nel 1950, non lasciando più adito a dubbi sulle sue intenzioni, fonda il Partito Comunista Nazionale Italiano. Passi per il “comunista”, ma per il “nazionale”... Mah. Qualche perplessità sul loro anarchismo è inevitabile. Ricordandosi, anche, delle raccomandazioni di Malatesta quando diceva che “gli anarchici non debbono, non possono essere dei giustizieri”, perché “essi sono dei liberatori”.
P. p. s.: Il saggio di Kluver e Stoica è in “Mente e cervello”, III, 14, 2005. Del racconto di Calvino e del progetto di romanzo parla Paul Braffort in Letteratura e matematica – Il guerriero rigoroso, in “AltroVerso”, 6/7, dicembre 2004 – marzo 2005.
Il partigiano e l’aviatore di Davide Pinardi è pubblicato da Odradek (Roma 2005). Il momento buono di Mario Bernardo venne pubblicato da Ideologie, a Roma nel 1969. L’esteta armato è il titolo di un saggio di Maurizio Serra, edito da Il Mulino, a Bologna nel 1990. Cfr., infine, L’attentato al Diana, Napoleone, Roma 1973. Per la citazione di Malatesta, cfr. E. Malatesta, Errori e rimedi (a cura di P. Adamo), MB Publishing, Milano s. d.

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