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                | E 
                    poi allimprovviso ti svegli in una via tua e non tua, 
                    indossando labito di Pierre Cardin, un mitra nella mano 
                    destra, un fanciullo, lamico tredicenne, al fianco sinistro. 
                    Tornate alla base; siamo a Beirut, oppure a Hong Kong, e una 
                    pallottola ha trapassato la tua spalla sinistra, lasciando 
                    intatto losso. 
 Arrivato col flusso della terza ondata migratoria dallUrss, 
                    lAmerica ammaliatrice laveva finalmente accolto 
                    in un misero spazio della città simbolo. Sperava, Limonov, 
                    in unaccoglienza migliore? Difficile rispondere. Con 
                    sicurezza, però, sappiamo che ben presto non accettò 
                    le regole del gioco che prevedevano una espulsione non già, 
                    come in Urss, dal Paese, ma dai luoghi del consumo e dellidentità 
                     sopravvivenza, altro che libertà di espressione! 
                    E ciò che per un americano significa alienazione, per 
                    un emigrante diventa totale estraneità. La stessa, 
                    peraltro, vissuta da tutti i russi capitati lì prima 
                    di lui, ma che in Limonov sublima in coscienza letteraria, 
                    in delirio rivoluzionario; in riscoperta della tradizione 
                    lirica russa, in concitate scene da film di cappa e kalashnikov. 
                    Negli anfratti, divincolandosi di tra i rifiuti, convive con 
                    la fauna interstiziale, incontra mogli e amanti, alienati 
                    e ribelli, mestieri e servizi: tutto in soggettiva, in campi 
                    molto corti, con locchio incollato alla cosa.
 Bentornato, compagno Limonov.
 
 Eduard Limonov è poco conosciuto dal pubblico italiano, 
                    ma un tale personaggio non può rimanere inosservato. 
                    È lo scrittore russo che ha costruito un mito della 
                    propria esistenza, un autore prolifico e poliedrico. Negli 
                    anni 70 voleva fare la rivoluzione con le armi in mano 
                    per spazzare il marcio di questa civiltà. 
                    Negli anni 90 ci ha provato davvero, combattendo in 
                    Serbia, in Abchazia, in Moldavia. Chi non lo prendeva sul 
                    serio si sarà ricreduto dopo larresto per attività 
                    sovversiva, vera o presunta. Le sue opere letterarie ora sono 
                    passate in secondo piano, ma rimangono inseparabili dalla 
                    sua personalità e saranno forse più durature 
                    delle sue fortune politiche.
 Diario di un fallito è generalmente considerato dalla 
                    critica come il suo libro migliore: il più sincero 
                    e il meno politicizzato. Le pagine di diario sono collegate 
                    in un solido impianto narrativo, un tracciato di punti che 
                    si allargano in chiazze di colore, trattenendo fedelmente 
                    ciò che sfiora il suo sguardo: le nuvole e i rifiuti 
                    urbani, i vecchi e i bambini, le signore eleganti e le prostitute 
                    stanche. Sui brani si proietta il cambio delle stagioni, delle 
                    donne, dei lavori, delle abitazioni. Le incursioni nel futuro 
                    e i ricordi del passato fanno da contrappunto alle sue peregrinazioni 
                    in una New York fatiscente e sontuosa. Lartificio è 
                    minimo, il narratore mescola il sogno e la realtà, 
                    rincorre il miraggio di una società diversa, respinge 
                    o assume, a seconda dellumore, la realtà che 
                    lo circonda. Il cinismo di Limonov, il fango di cui si copre 
                    vivendo, diventa dura scorza che protegge lanima. Non 
                    segue mai la corrente, semmai la crea: in Unione Sovietica 
                    scriveva racconti alternativi, in America sogna di sparare 
                    al Presidente. Le elucubrazioni politiche, ispirate da un 
                    idealismo che si confonde con le fantasticherie adolescenziali, 
                    gli hanno procurato più rovesci che vittorie. Si è 
                    affermato come scrittore, ma non conduce di certo una vita 
                    agiata e tranquilla. In Russia è una tradizione: la 
                    fama letteraria non esclude la prigione. Daltra parte, 
                    essere un eroe non è per Limonov un artificio pubblicitario, 
                    è il suo modo per continuare a sostenere il peso del 
                    mondo moderno. Finché ti dài da fare la partita 
                    non è persa. Nelle avversità, Edicka rimane 
                    fedele a sé stesso: un fallito, che anche nel periodo 
                    fortunato si ricorda dei riti del popolo dei falliti; 
                    resta un perdente a oltranza, che non smette di credere e 
                    sognare.
 Eduard 
                    Limonov (Dzerzinsk, URSS, 1943), poeta, scrittore, 
                    comunista di ritorno. Dopo uninfanzia burrascosa in 
                    Ucraina si avvicina allintelligencija dissidente. 
                    Nel 1974 emigra negli Stati Uniti. Dal 1980 vive in Francia, 
                    raggiungendo il successo letterario. Con il crollo dellURSS 
                    ritorna in Russia. Nel 1994 fonda il Partito Nazional-Bolscevico. 
                    Dal febbraio 2002 al giugno 2003 viene imprigionato con laccusa 
                    di traffico darmi e attività sovversiva. È 
                    autore di oltre venti pubblicazioni, fra narrativa, saggi 
                    politici e raccolte di poesie. Diario 
                    di un fallito è presentato per la prima volta in 
                    traduzione italiana. |   
                | LIMONOV, 
                    IL FALLITO CHE VOLLE FARSI VATE 24/09/04Diario di un fallito,
 di Eduard Limonov, a cura di Marina Sorina
 Odradek Edizioni, pp. 176, 13 euro
 
  
                    Mauro Martini 
                    su www.lettera22.itVenerdi' 24 Settembre 2004
 
 “A 
                    me personalmente piace solo scrivere, ma neanche sempre. In 
                    generale preferisco non far nulla. Preferisco pensare. Ricordare 
                    le poesie. Prendere il sole. Mangiare la carne. Bere il vino. 
                    Fare l’amore oppure organizzare la rivoluzione. Scrivere, 
                    -magari qualche volta”. Eduard Limonov non si è 
                    molto discostato nella sua turbolenza vita da questa dichiarazione 
                    programmatica che risale alla seconda metà degli anni 
                    Settanta e compare nel Diario di un fallito, testo letterario 
                    pubblicato nel 1982 e soltanto oggi approdato ad una irrinunciabile 
                    versione italiana, curata con passione e competenza da Marina 
                    Sorina. Negli ultimi ventidue anni Limonov ha fatto di tutto. 
                    L’intellettuale un po’ grassoccio e con gli occhialini 
                    tondi che scandalizzava gli ambienti dell’emigrazione 
                    russo-sovietica, raccontando in una prosa densa e aperta ad 
                    ogni contaminazione le miserie esistenziali dei loro protagonisti, 
                    non esiste più da tempo. Oggi lo scrittore ha appena 
                    passato la sessantina, ostenta un fisico asciutto e curato 
                    e di sicuro ricorda con simpatia le antiche polemiche che 
                    lo volevano tra Francia e Stati Uniti agente provocatore del 
                    Kgb. Bazzecole in confronto al monumento in cui Limonov è 
                    riuscito a trasformare la propria esistenza, quasi come un 
                    avanguardista del primo ‘900. Non si è risparmiato 
                    nemmeno due anni di galera con l’accusa di aver organizzato 
                    un attentato terroristico, circostanza sempre negata, ma un 
                    po’ a malincuore, come se il suo Partito nazional-bolscevico, 
                    fondato ormai un decennio fa, non fosse naturalmente portato 
                    a limitarsi alle mere intemperanze verbali di un organo di 
                    stampa, “Limonka”, croce e delizia dell’intelligencija 
                    moscovita. E d’altronde Limonov vanta, non si sa esattamente 
                    con quale fondamento, una partecipazione armata al fianco 
                    dei “fratelli” serbi durante la guerra di Bosnia. 
                    Insomma, il vecchio Edichka, lo scrittore anticonformista 
                    che si scagliava contro coloro che egli considerava i bacchettoni 
                    dell’emigrazione ostentando una sessualità ingorda 
                    e onnicomprensiva, è riuscito a diventare quel che 
                    aveva sempre sognato, fin dal suo arrivo a Mosca nel 1966, 
                    proveniente dalla natia Char’kov, quando per far breccia 
                    nella cerchia progressista delle riviste del disgelo si prestava 
                    a cucire i pantaloni dei redattori snob e squattrinati delle 
                    testate più prestigiose. Oggi Limonov è agli 
                    occhi delle generazioni più giovani un autentico mito, 
                    costruito non sulla condivisione di idee politiche spesso 
                    aberranti, ma sull’apprezzamento della capacità 
                    di coerenza estrema, della disponibilità a pagare di 
                    persona in una dimensione tutta estetica, ed estetizzante, 
                    dell’esistenza. “Virtù” cui lo scrittore 
                    conferisce piena espressione letteraria in una nutrita serie 
                    di testi dati alle stampe negli ultimi anni. Volumi discontinui, 
                    tutti di natura autobiografica, tra i quali spiccano Il libro 
                    dei morti e Il libro dell’acqua.Il Diario di un fallito è l’imprescindibile premessa 
                    a ciò che Limonov rappresenta oggi, il testo capitale 
                    sicuramente più decisivo di quel Sono io, Edichka, 
                    pubblicato nel 1980 e a suo tempo importato in Italia dalla 
                    traduzione francese con il titolo, suggestivo ma fuorviante, 
                    Il poeta russo preferisce i grandi negri. Fu insulsa la scelta 
                    di ignorare l’originale russo per il semplice motivo 
                    che la grande novità dello scrittore consisteva nella 
                    sua capacità di inventare una lingua ben lontana da 
                    quella normatività che all’epoca ancora affliggeva 
                    una letteratura per cui molto contava il bello scrivere. Non 
                    a caso Andrej Sinjavskij affrontò coraggiosamente la 
                    sfida di pubblicare le opere del giovane e controverso autore 
                    proprio nell’intento di valorizzarne l’originalità 
                    linguistica e immediatamente fu bersaglio delle polemiche 
                    di autorevoli esponenti dell’emigrazione che vedevano 
                    in quei lavori delle pure e semplici provocazioni. Quanto 
                    quelle diatribe fossero inconsistenti lo dimostra la lettura 
                    odierna del Diario di un fallito: grazie alla competenza e 
                    alla sensibilità della traduttrice si riesce a cogliere 
                    a distanza di più di vent’anni la dirompenza 
                    di un lungo monologo in cui il “fallimento” denunciato 
                    nel titolo si traduce nel consapevole rifiuto di ogni limite. 
                    Non c’è modo di fare esperienza del mondo circostante 
                    senza ricercarne gli aspetti estremi e ripugnanti, soprattutto 
                    nella sfera sessuale che rimane il luogo privilegiato della 
                    conoscenza a patto di non farsi condizionare dai canoni riconosciuti 
                    della bellezza. D’altronde per Limonov non c’è 
                    modo di separare l’esperienza dalla violenza. Una violenza 
                    che da un lato è esasperata reazione al mondo occidentale 
                    che respinge il giovane emigrato sovietico, ma d’altro 
                    lato è l’unico strumento di cui si dispone per 
                    far sì che la sfera delle convenzioni non abbia il 
                    sopravvento. E’ solo la primordiale violenza del desiderio 
                    fisico che consente di abbracciare una fresca vedova e di 
                    superare il lutto della recente scomparsa. E’ solo l’odio 
                    intenso per la civiltà che può assicurare la 
                    speranza di un cambiamento. In un delirio che approda al sogno 
                    di assassinare il presidente degli Stati Uniti e che ha come 
                    unico punto d’appoggio alla realtà una rigorosa 
                    coerenza linguistica. Con buona pace di tutti coloro che continuano 
                    a prendere per veri i proclami dell’aspirante Vate Eduard 
                    Limonov.
 ======= Ne 
                    ha voluto parlare Milly Berrone 
                    su esamizdat. Bene, ci pare. Se, 
                    come sostiene Calvino, tanto nella letteratura quanto nella 
                    vita tutto quello che apprezziamo come leggero finisce invariabilmente 
                    per rivelare il proprio peso insostenibile, Il diario di un 
                    fallito di Eduard Limonov rappresenta il versante esattamente 
                    opposto alla levità di Kaminer. All’umorismo 
                    e alla melanconia di quest’ultimo corrispondono infatti 
                    la prosopopea e l’intenzionale teatralità di 
                    Limonov. Pur avendo vissuto e narrando nei propri testi la 
                    medesima esperienza di vita, l’emigrazione, non è 
                    possibile trovare due autori più distanti l’uno 
                    dall’altro, ma i tempi ed il contesto sono radicalmente 
                    mutati.Le Edizioni Odradek presentano infatti, a più di venti 
                    anni dalla sua data di pubblicazione, la traduzione italiana, 
                    curata da Marina Sorina, di Diario di un fallito oppure. Un 
                    quaderno segreto, scritto dall’autore intorno al 1977 
                    a New York e apparso in Francia nel 1982. Espressamente dedicato 
                    ai falliti e ai perdenti di tutto il mondo, questo testo, 
                    suddiviso in venti capitoli a loro volta composti di brevi 
                    frammenti lirici, racconta in forma di diario, in una sorta 
                    di poesia in prosa, come nota nella prefazione la traduttrice, 
                    un anno della vita di Limonov a New York.
 Ex enfant terrible sovietico che al pari di Venicıka Erofeev 
                    non volle e non seppe mai adeguarsi, come nota Gian Piero 
                    Piretto (“La Russia “dentro e fuori l’Europa””, 
                    Mappe della letteratura europea e mediterranea; III. Da Gogol’ 
                    al postmodernismo, Mondadori, 2001, p. 49), nel 1974 Edicıka 
                    Limonov, pur non considerandosi un dissidente, abbandona l’Unione 
                    Sovietica in cerca di una maggiore libertà di espressione 
                    e, dopo aver soggiornato per qualche tempo a Vienna, a Roma 
                    e a Parigi, si trasferisce a New York. Se l’America 
                    tuttavia piace a gran parte degli emigrati russi, così 
                    non è per Limonov che, con la delusione e la rabbia 
                    di chi non riesce a trovare spazio nel tanto agognato paradiso 
                    delle libertà, nelle pagine del suo primo romanzo composto 
                    negli Stati Uniti (Sono io, Edicıka. Il poeta russo preferisce 
                    i grandi negri) si scaglia violentemente non solo contro il 
                    capitalismo ed il way of life americano, ma anche contro gli 
                    emigrati russi, soprattutto contro il premio Nobel Josif Brodskij, 
                    che, ricambiati, quel sistema lo hanno invece pienamente accettato. 
                    Terminato nel 1976, il romanzo, che non verrà mai pubblicato 
                    negli Stati Uniti e vedrà la luce soltanto nel 1980 
                    in Francia, dove Limonov ritorna dopo aver lasciato New York, 
                    trova un anno dopo, nel 1977, il suo cotè intimo e 
                    privato proprio in Diario di un fallito.
 Le vicende che vi sono narrate coinvolgono infatti – 
                    nota sempre la traduttrice nella sua prefazione alla traduzione 
                    – le stesse persone, lo stesso periodo, la stessa storia 
                    del precedente romanzo, ma su tutto domina, in una disperata 
                    e disperante solitudine, la voce del narratore, la voce di 
                    Edicıka che, abbandonandosi totalmente non solo alla confessione, 
                    ma anche ad un sommo autocompiacimento, tenta di costruire 
                    attraverso le pagine del suo diario, offerto impudicamente 
                    alla curiosità del pubblico, il mito negativo della 
                    propria esistenza, andando, come sottolinea Mauro Martini, 
                    ben oltre la semplice identificazione tra arte e vita (Oltre 
                    il disgelo. La letteratura russa dopo l’Urss, Mondadori, 
                    2002, pp. 15-21). Abbandonato dalla moglie russa e ignorato 
                    dalle case editrici newyorkesi che non hanno alcuna intenzione 
                    di pubblicare il romanzo che ha appena terminato (si tratta 
                    ovviamente di Sono io, Edicıka), Eduard Veniaminovicı, Edik, 
                    Ed’ka, Edicıka, E.L. o Edward che dir si voglia si barcamena 
                    tra mille impieghi precari, abbrutendosi in uno squallido 
                    albergo di periferia o facendosi mantenere dalla cameriera 
                    di un ricco americano, nella costante ricerca di avventure 
                    sessuali – ora reali, ora immaginarie – con donne, 
                    uomini, adolescenti e persino bambini, senza mai smettere 
                    di imprecare contro il sistema americano che trasforma i suoi 
                    cittadini in schiavi, per giunta idioti. La narrazione oscilla 
                    costantemente non solo tra il passato agreste e rurale, in 
                    ogni caso sereno, dei suoi ricordi d’infanzia e di gioventù, 
                    il presente della degradante avventura newyorkese ed un improbabile 
                    futuro di rivoluzioni e assalti al sistema americano, ma anche 
                    tra l’esibita e compiaciuta esaltazione di sé 
                    e l’intimistica contemplazione della natura in uno scadente 
                    romanticismo a tratti adolescenziale. Non è un caso 
                    infatti che la narrazione si concluda con il trasferimento 
                    di Edicıka nella casa di campagna del riccone di turno, dove, 
                    nella contemplazione del cielo aperto egli riesce finalmente 
                    a trovare tranquillità, pur continuando a sognare di 
                    disseminare violenza contro se stesso e contro la società 
                    che lo circonda: “Pallottola, sei bella. Pallottola, 
                    sei vendicativa. Pallottola, sei bollente. È bello 
                    sparare da una distanza ravvicinata nella pancia gonfia e 
                    moscia del Presidente degli Stati Uniti d’America, protetto 
                    solo da una camicia a quadri da contadino, riuscendo a prendere 
                    la mira tra due spalle larghe, nel caldo asfissiante di una 
                    fiera agricola dei farmers dello Iowa, nel paese del mais 
                    gigantesco e dei manzi capaci di schizzare un getto giallo 
                    che buca la terra. Correre verso i trattori nuovi di zecca, 
                    entrare nel padiglione tecnologico e sprangare la porta…E 
                    mentre quelli tentano di sfondare le porte e le finestre, 
                    alzarsi in piedi sul tetto e spararsi alla tempia una bollente 
                    pallottola. Addio!”.
 Molto si è scritto su Eduard Limonov dentro e fuori 
                    la Russia, soprattutto da quando, al suo rientro nella ormai 
                    ex Unione Sovietica, l’estremista politico ha preso 
                    il posto dello scrittore, alleandosi dapprima con Zıirinovskij, 
                    fondando successivamente il Partito Nazional-Bolscevico e 
                    scontando infine più di due anni di carcere per un’infondata 
                    accusa di traffico di armi, banda armata, terrorismo e attività 
                    sovversiva. Al di là di quanto scritto sul Limonov 
                    attivista politico, la migliore interpretazione, perlomeno 
                    in Italia, di Diario di un fallito è tuttavia quella 
                    di Mauro Martini che scorge nel protagonista di questo testo 
                    la descrizione dell’homo violentus “nella sua 
                    forma più pura, quella incarnata nell’emigrato 
                    dall’Unione Sovietica che guarda dall’esterno, 
                    e con una buona dose di rabbia, quel mondo occidentale da 
                    cui si sente irrimediabilmente escluso e che denuncia la voglia 
                    frustrata di integrazione invece di perpetuare l’immagine 
                    dell’intellettuale sempre pensoso delle sorti della 
                    madrepatria”. Esprimendo inoltre un’opinione più 
                    generale sulla attività del Limonov scrittore, Martini 
                    gli riconosce da un lato il pregio di essere sempre rimasto 
                    un uomo di letteratura fino al midollo, pur avendo sempre 
                    cercato di disonorare la letteratura stessa, mentre per altri 
                    versi si rende conto di come spesso ciò che egli scrive, 
                    pur essendo letterario al massimo grado, non riesca a conquistarsi 
                    una autentica dimensione artistica.
 Non è facile – bisogna ammetterlo – nell’affrontare 
                    la prosa di Eduard Limonov riuscire non solo a distinguere 
                    il provocatore ed il delirante rivoluzionario dallo scrittore, 
                    ma anche superare l’irritazione provocata da una scrittura 
                    spesso immatura. Va tuttavia detto che la scelta delle Edizioni 
                    Odradek di presentare finalmente in una traduzione italiana, 
                    estremamente attenta e curata, il Diario di un fallito è 
                    indubbiamente lodevole. Non solo fino ad oggi in Italia era 
                    apparso unicamente un suo racconto, contenuto nell’antologia 
                    di Viktor Erofeev, I fiori del male russi, curata per la Voland 
                    da Marco Dinelli, oltre ad una traduzione dal francese (!) 
                    del romanzo Il poeta russo preferisce i grandi negri per Frassinelli, 
                    ma la possibilità di leggere in italiano questo testo 
                    di Limonov è senza dubbio estremamente utile per comprendere 
                    più a fondo tanto la letteratura dei decenni immediatamente 
                    precedenti il crollo dell’Unione sovietica, quanto i 
                    più recenti sviluppi del postmodernismo in terra di 
                    Russia. Va infatti riconosciuto a Limonov e alla sua opera 
                    il merito, indubbiamente condiviso, tra gli altri, con Venedikt 
                    Erofeev, di aver introdotto nella letteratura russa temi e 
                    procedimenti, non da ultimo il ricorso al lessico basso, che 
                    in questi ultimi anni ne sono diventati il tratto caratteristico, 
                    merito che tuttavia i diretti interessati, da Pelevin a Sorokin, 
                    da parte loro si guardano bene dall’ammettere.
 
 http://www.esamizdat.it/recensioni/berrone2.htm
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                | IL 
                    CASO EDUARD LIMONOV, SCRITTORE E DEMENTE POLITICO in Alias de il manifesto, del 2 ottobre 2004
 la Talpa libri
 Violento di culto
 
 Libro dell'acqua (scritto in carcere) e Diario 
                    di un fallito (di vent'anni prima): due uscite italiane 
                    per il fondatore del partito nazionalbolscevico, che fa d'ogni 
                    risentimento una prosa esplosiva, coercitiva
 di Mauro Martini
 Un 
                    tronco maschile nudo che emerge dall'acqua e a cui il bordo 
                    superiore dell'immagine taglia di netto la testa. Un gioco 
                    di muscoli che conferisce a quel busto una postura scultorea 
                    ma al tempo stesso un'immobilità ravvivata dal fitto 
                    intreccio di graffiti in penna rossa che una stessa mano ha 
                    tracciato su quella citazione della classicità pagana. 
                    Il grafico che due anni fa ha studiato la copertina dell'edizione 
                    russa del Libro dell'acqua di Eduard Limonov per i 
                    tipi di Ad Marginem (ora ne esce la traduzione italiana, curata 
                    da Mario Caramitti, per la padovana Alet: pp. 256, € 
                    17,00) ha colto così, lapidariamente, lo spirito del 
                    testo, lo sforzo dell'autore di costruire un monumento a se 
                    stesso e di converso limpossibilità di fargli emanare 
                    armonia e compostezza di fronte alla prevalenza di una prosa 
                    frammentata che si spoglia di ogni orpello per consentire 
                    l'esplosione della violenza insita in ogni scrittura.Se Limonov 
                    è oggi in Russia uno scrittore di culto, soprattutto 
                    tra le generazioni più giovani, lo si deve all'immediatezza 
                    con cui le sue pagine lasciano capire che le fatiche dello 
                    scrivere consistono nella continua coercizione che ogni riga 
                    deve esercitare nei confronti di chi legge. Poco importa che 
                    il buon Edicka abbia trascorso in carcerazione preventiva 
                    ben due anni con l'imputazione di acquisto d'armi e di partecipazione 
                    a banda armata - reato collegato alla preparazione di un attentato 
                    per conto del Partito nazionalbolscevico, la rumorosa ma poco 
                    vitale creatura politica dello stesso Limonov. Nessuno ha 
                    mai prestato eccessivo credito a un'accusa talmente mal costruita 
                    che la stessa magistratura ha alla fine chiuso la faccenda 
                    con una sbrigativa condanna a quattro anni, derubricando i 
                    reati e rimettendo immediatamente in libertà l'imputato, 
                    il quale aveva trasformato la sua cella, nel carcere di transito 
                    di Lefortovo, in una fucina letteraria di prim'ordine, licenziando 
                    migliaia di pagine. Molti invece hanno visto in quell'arbitraria 
                    detenzione la volontà di stroncare una letteratura 
                    intransigente, troppo votata alla descrizione della pulsione 
                    originaria della scrittura per trovare il modo di stringere 
                    compromessi. Due anni in galera e un autore, in precedenza 
                    noto per gli happening trasgressivi del suo partito, che ha 
                    travalicato l'angusto ambito della politica moscovita e dei 
                    professionisti della letteratura per diventare una voce controversa 
                    ma autorevole della narrativa russa.Il Libro dellacqua, che 
                    di Lefortovo è figlio, riprende all'apparenza l'eterna 
                    ossessione autobiografica di Limonov, affrancandosi però 
                    dalla vocazione diaristica dei primi anni di attività 
                    e proseguendo invece nell'organizzazione in libro 
                    intorno a un tema prefissato inaugurata con il Libro dei morti, 
                    in memoria dei molti defunti tra gli occasionali compagni 
                    di viaggio. L'acqua del titolo sta a segnalare i mari, i fiumi, 
                    i laghi, le fontane, le saune, le piogge che hanno costellato 
                    la vita dell'autore e si traducono in frammenti narrativi 
                    privi di coerenza cronologica. D'altronde l'unica coerenza 
                    che si può pretendere dall'autore è quella letteraria, 
                    perché assai poco tiene insieme il giovane Savenko 
                    (il vero nome di Limonov) - il provinciale di Char'kov che 
                    arriva a Mosca per conquistare l'ambiente della letteratura 
                    liberale e si ritrova a cucire pantaloni agli 
                    accigliati direttori delle riviste più prestigiose 
                    - con l'odierno leader politico votato al culto di una durezza 
                    virile da mettere al servizio di un contenitore ideologico 
                    piuttosto confuso ma comunque destinato a raccogliere i nostalgici 
                    di un ordine imperiale perduto. Lo stesso Limonov ha provveduto 
                    a correggere progressivamente il tiro. Quand'era soltanto 
                    uno scrittore emigré, odiato dai suoi compatrioti per 
                    la scarsa venerazione nei confronti delle gerarchie letterarie 
                    della Russia all'estero, la sua bandiera era il bisessualismo 
                    più spinto, mentre adesso, che si presenta come un 
                    palestrato capo nazionalbolscevico, il bisessualismo sfuma 
                    a vantaggio di una ostentata pedofilia.Già questo basterebbe per capire che il materiale autobiografico 
                    va preso con la dovuta cautela, perché non si potrà 
                    mai essere sicuri delle prodezze belliche di Limonov in Abchazia 
                    o nella Krajina di Knin a fianco del comandante Arkan oppure 
                    nella Transdnistria. Né la cosa importa più 
                    di tanto. Conta invece il modo in cui l'originaria esplosione 
                    di risentita violenza viene tradotta in una prosa da un lato 
                    sapientemente orchestrata sui temi che maggiormente feriscono 
                    la coscienza russa, e dall'altro giocata sui registri dell'imposizione 
                    e della seduzione al tempo stesso. Casualmente, dopo una lunghissima 
                    assenza dalle librerie italiane, Limonov vi è rientrato 
                    quest'anno con questo Libro dell'acqua - che è del 
                    2002 - e con il Diario di un fallito, pubblicato 
                    un ventennio prima (traduzione di Marina Sorina, Odradek Edizioni, 
                    pp. 176, € 13,00). La lettura dei due testi è 
                    istruttiva perché i due traduttori hanno, forse inconsapevolmente 
                    o forse forzati dall'originale, privilegiato corde diverse: 
                    il Limonov di Caramitti è crudamente violento, il mitra 
                    e la donna ridotta a orifizio sono i due poli di un vitalismo 
                    tetro, disperato, cui fa da contraltare l'impossibilità 
                    di penetrare al fondo di paesaggi sempre descritti come morti; 
                    il Limonov di Sorina è invece accattivante, usa il 
                    suo rifiuto dell'Occidente come un'arma per vincerne le difese 
                    e non esita a farsi seducente. E i due Limonov convivono ancora 
                    adesso in pagine terse e affascinanti che si fanno leggere 
                    solo a patto di trascurare ogni considerazione etica o politica 
                    e di aver voglia di vedere la violenza oltre il velo delle 
                    convenzioni e dei pregiudizi per ciò che essa è, 
                    vale a dire un incontenibile impulso. Andrej Sinjavskij considerava 
                    il giovane Edicka una promessa della letteratura russa e scatenò 
                    feroci polemiche pubblicandone i testi a Parigi all'interno 
                    di quell'emigrazione che li accolse assai negativamente, adducendo 
                    i più vari motivi, dall'ossessivo turpiloquio alla 
                    scabrosità delle situazioni, passando per la ferocia 
                    con cui erano ritratti alcuni emigrés, Iosif Brodskij 
                    in testa. Sinjavskij naturalmente trovava una notevole consonanza 
                    tra la propria prosa e quella di Limonov, entrambe fondate 
                    sul pieno dominio della finzione letteraria sull'esistenza, 
                    fino al punto di piegare la vita alle esigenze della letteratura. 
                    Probabilmente però, alla base di quel giudizio favorevole 
                    vi era l'intuizione che Edicka avesse trovato una peculiare 
                    via di uscita dal disfacimento dell'utopia sovietica, una 
                    sorta di tentativo di ritorno al magma originario della violenta 
                    esplosione rivoluzionaria, un percorso a ritroso seguito senza 
                    speranza ma fingendo di credere nella praticabilità 
                    di una seconda chance. È un po' quello che oggi Limonov 
                    fa risibilmente in politica, finendo con il limitarsi ai gesti 
                    dada del lancio di colori e di uova contro i malcapitati bersagli 
                    e negando ogni nostalgia in un virilismo che vive soltanto 
                    dell'atto e non si lascia comporre in una strategia razionale. 
                    Il Partito nazionalbolscevico non è però che 
                    un pallido riflesso di ciò che Limonov ha tentato e 
                    tenta in letteratura, la pratica di uno squarcio che riduce 
                    l'intera realtà a finzione.
 --------------------- La vita quotidiana raccontata attraverso le pagine di 
                    un diario che non risparmia niente: i dolori e i rifiuti, 
                    la gente, i vecchi, i bambini, le ex mogli che te le ritrovi 
                    davanti quando meno te lo aspetti. E poi le delusioni, le 
                    confessioni. Intanto intorno cambiano le stagioni, i tempi, 
                    la storia. Chiara Lico, in http://www.lettera.com/libri/libro.jsp?id=5181 
                    scrive così del nostro Limonov.
 Diario di un fallito: La volontà di farsi conoscere
 Il mondo. La vita. Pareva che tutto si fosse fermato. Il 
                    sole in faccia è la pace nellanima.
 Solo che tutto ciò è un imbroglio. Domani, dopodomani, 
                    di nuovo sarà esploso il mondo
di nuovo i capelli 
                    si sporcheranno, il vento sferzerà, la pioggia bagnerà, 
                    la donna tradirà, e io bacio una foglia rossa, che 
                    cade sul mio libro. Salve, Natura!
 E voi, gente, ammazzatemi, per favore, in un modo spettacolare.
 
 Sono pagine dure, queste. Tanto da far pensare, mentre le 
                    sfogli, che ci sia anche una certa compiacenza nella crudezza 
                    delle espressioni. Miraggi icastici, a volte anche troppo, 
                    di una realtà da ingoiare così come ci si presenta. 
                    Così come Limonov vuole presentarcela e rendercene 
                    partecipi.Un diario che al di là del privato che racconta, ha 
                    il pregio di ristabilire un rapporto con una storia poco conosciuta. 
                    E da lì, nasce la curiosità di conoscere anche 
                    il protagonista che la vive e che ce la racconta. Ma attenzione: 
                    questopera è anzitutto un atto di narcisismo. 
                    Alla base cè la volontà di farsi conoscere, 
                    di essere scoperto, riconosciuto, al limite anche ammirato 
                    in tutto quel che rappresenta una forzatura al senso comune: 
                    mi piace essere un avventuriero. Mi torna spesso utile. 
                    Allimprovviso piove, e mi sento povero e nauseato, e 
                    mi viene da piangere, allora penso: - ehi, sei un avventuriero, 
                    può capitare. Tieni duro, ragazzo, te la sei scelta 
                    tu questa strada, non volevi una vita normale  ora beccatela, 
                    e non ti lamentare. E questo è niente in confronto 
                    a quel che si trova leggendo questo Diario di un fallito che 
                    ci prova gusto a sentirsi tale. Quasi che la sofferenza, a 
                    prescindere dal tipo, sia comunque un pregio da esibire.
 Il bello veramente di questo testo sono gli sprazzi di verità. 
                    Mai edulcorati, mai regalati o forzati. Li trovi lì, 
                    ad attenderti come luci che di tanto in tanto ti fanno strada 
                    e che servono a darti la via: la realtà, brutta, sporca, 
                    malsana e dolorosa è comunque la realtà. E con 
                    lei vanno fatti i conti. Non mistifica niente, Limonov. Semmai 
                    il contrario. Ma tutto questo non deve indurre in errore: 
                    tanta aderenza alla realtà non significa che il sogno 
                    sia archiviato. Piuttosto che va preservato, curato, coccolato 
                    pena la sua dissipazione. E questo sarebbe il peggiore dei 
                    reati, il più grave dei peccati. La realtà e 
                    il pelo sullo stomaco che essa comporta sono il solo modo 
                    di tenere al caldo la fantasia, la felicità che aspettiamo, 
                    quel domani che sarà - che dovrà essere - comunque 
                    migliore delloggi.
 
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